Articolati piani di racconto, su uno spartito a matrice autobiografica. L’educazione morale, sentimentale e intellettuale di una bambina di “Pirano, inconfondibile nella sua grazia”, che vive con felice ingenuità le giornate affacciate sul mare, in uno degli angoli più belli della costa istriana. Il processo di identificazione prima istintivo quindi consapevole con quel lembo di terra dai vasti azzurri che accarezzano le case, e che tocca il culmine proprio quando Elsa è in procinto di lasciarlo, per esodare con i suoi in Italia: un addio al paradiso terrestre da cui li allontana l’amarezza di un padre, grande figura di comunista deluso e ormai perseguitato («marxismo e comunismo coprivano il nazionalismo sloveno»). Poi l’esperienza di città, ispido deserto di cemento che mal sopporta i nuovi venuti, e fa per contrasto risaltare come fitte della nostalgia il valore della patria perduta: «quel posto, del resto, col tempo, mancando noi, è diventato un altro, e quindi è perduto per sempre. Perduta quell’anima, s’è perduto quel mondo».
Intrecciata, e per certi aspetti sussidiaria a questi temi, la maturante coscienza di sé della protagonista, un Io narrante dai malinconici abbandoni, che attraverso sensi di colpa e combattive rivendicazioni, scopre di essere persona e donna lungo un percorso dai risvolti drammatici sul crinale che separa consuetudini antiche di impronta patriarcale e cattolica, il clima morale ed umano del piccolo borgo istriano, da una modernità emancipatrice ma smemorata («un omo devi ‘ver un mestier. Ti, no ocori», diceva la madre). E ancora, sullo sfondo, minaccioso basso continuo degli ampi scorci di vissuto, le contorsioni della grande storia, che cova dietro l’orizzonte le mosse destinate a piagare la grama esistenza dei popoli, ciechi di orgoglio e di odio: un implacabile Iddio che grava sulle piccole vite di incolpevole gente comune (e da qui la pessimistica intonazione finale, una riflessione sul mondo, scandalo dei giusti).
A tenere insieme un discorso così ricco, una scrittura dalle spiccate qualità: la lingua tersa e scorrevole, di registro invariabilmente paratattico, gioca sulla sua sapiente orizzontalità le carte di una competenza lessicale, metaforica, timbrica, di un gusto visivo ed evocativo allenato sui più grandi modelli; i moduli espressivi sono vari, ma di impeccabile eleganza, in una veste di spontaneità conquistata per virtù di classica misura e, suppongo, di inesausto labor limae: tutte doti rarissime nel futile universo del best-seller leggi e getta.
Talentuoso e originale, fresco ma, senza dubbio, di decantazione lunga e tormentata, «La cresta sulla zampa» di Elsa Fonda (Ibiskos editrice, Empoli, euro 15,00), istriana di nascita, triestina d’adozione, racconta una storia già più volte sentita, ma con tale sapore di verità e magia di coinvolgimento da renderla dolorosamente nostra e sorprendentemente nuova. Entra così a pieno titolo nel miglior canone della letteratura dell’esodo: insieme con Tomizza, Milani, Miglia, Mori, Madieri a spiegarci dove abbiamo sbagliato, a tener alto il senso della dignità dell’uomo.
Fulvio Senardi su Il Piccolo del 13 dicembre 2010