ROMA – Gli esodati da Fiume, dall’Istria e dalla Dalmazia, una volta abbandonate le proprie terre e case, dove sono andati a finire e come hanno vissuto il loro destino? È questo l’argomento attorno del video documentario “Vivere in esilio. Memorie del Villaggio giuliano-dalmata di Roma” a cura di Emiliano Loria con riprese e montaggio di Maria Sara Verardi. Il corto è stato appena prodotto dall’Associazione per la Cultura Fiumana, Istriana e Dalmata nel Lazio ed è composto da interviste a profughi istriani, fiumani e dalmati e a figli di profughi nati nel Villaggio giuliano-dalmata della capitale italiana, oggidì Quartiere giuliano dalmata.
L’autore, Emiliano Loria, di origini calabresi ma nato a Roma, è entrato in contatto con la storia di confine per puro caso, imbattendosi, per una ricerca universitaria, nell’Archivio Museo storico di Fiume, sito, appunto nel Quartiere giuliano- dalmata di Roma. Qui ha conosciuto il suo direttore, Marino Micich, e molti fiumani, oggi quasi tutti scomparsi. È riuscito a intervistare quasi tutti. Le loro voci, le loro storie, sono così conservati in nastri nell’archivio dell’istituzione. Alcune di queste sono state pubblicate sulla Rivista di Studi Adriatici “Fiume”, edita dalla Società di Studi Fiumani. Oggi Emiliano Loria lavora all’Archivio Museo storico di Fiume. Per la Società di Studi Fiumani svolge varie mansioni, ma in particolare è archivista e redattore della Rivista “Fiume”. È, inoltre, segretario dell’Associazione per la Cultura Fiumana, Istriana e Dalmata nel Lazio, presieduta da Micich. A illustrarci il documentario è lo stesso Emiliano Loria.
Com’è nata l’idea per il documentario?
“Il filmato nasce dalla semplice domanda: i molti fiumani, istriani e dalmati, una volta abbandonate le loro terre, dove sono andati a finire e come hanno vissuto? Il nostro video ‘Vivere in esilio’ analizza solo un caso particolare e tengo a precisare che non è un documentario storico sulla nascita e l’evoluzione del Villaggio giuliano-dalmata di Roma, ma è una raccolta di memorie, un documentario di narrazione. Coloro che parlano davanti alla telecamera stanno ricordando la loro infanzia, la propria adolescenza e magari possono essere imprecisi nel rievocare fatti e avvenimenti storici, ma sono sempre autentici. Gli intervistati sono, in ordine alfabetico: Gianclaudio de Angelini, Aldo Clemente già segretario dell’Opera profughi, Ferruccio Conte, Claudio Drandi, Plinio e Vanna Martinuzzi, Mirella Ostrini, Roberto Pick, Romano Sablich, lo scrittore Diego Zandel, Gianna Zoia e il fratello Oliviero, nato nel Villaggio, e che è stato anche presidente del Comitato di Roma dell’ANVGD, ora presieduto da Donatella Schürzel”.
Che materiali ha utilizzato e da dove provengono?
“Il documentario si avvale di interventi di Marino Micich, in qualità di direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, di fotografie tratte dagli archivi di famiglia degli intervistati, che devo ringraziare per la loro disponibilità e generosità e – ci tengo a sottolineare – di immagini tratte dall’immenso archivio dell’istituto Luce. Durante la fase di ricerca, infatti, ho ritrovato cinegiornali della Settimana Incom davvero interessanti: ad esempio, il primo matrimonio celebrato nella chiesa del Villaggio e l’inaugurazione di alcuni padiglioni fatta dall’on. Giulio Andreotti, allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
Quale messaggio intende trasmettere?
“Il mio intento è stato quello di mettere a confronto testimonianze di persone di varie generazioni: in apertura, ad es., si vede l’anziano signor Sablich, che, tornato dai campi di prigionia tedeschi, dopo varie vicissitudini, approda a Roma e trova un rifugio nell’abbandonato e fatiscente villaggio operaio dell’EUR. Il villaggio, infatti, era stato adibito per gli operai che costruivano l’EUR 42, fortemente voluto da Benito Mussolini per rilanciare l’immagine della nuova Roma, capitale dell’Impero. Un sogno infranto dalla Seconda guerra mondiale. I profughi giuliani, in particolare fiumani e zaratini, già dalla fine del 1945 occuparono questi spazi e con le loro forze riuscirono a crearsi una dignitosa sistemazione certamente migliore della vecchia stazione Termini, o delle caserme militari romane, fredde e decisamente poco accoglienti, adibite a campi di raccolta per sfollati. Fu grazie al Comitato giuliano della capitale e, dal 1949, grazie all’istituzione dell’ente morale Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati che si provvide più celermente alla costruzione dei padiglioni nel Villaggio, visibili nel documentario, all’interno dei quali i profughi vivevano con umili arredi e scarse comodità, tuttavia di gran lunga migliori a fronte di quelle offerte dai Centri di raccolta profughi disseminati in tutta Italia. Ho intervistato anche persone che oggi hanno poco più di 50 anni e che sono nate nel Villaggio, oppure sono giunte in fasce con i genitori: è il caso di Gianclaudio de Angelini, di Rovigno, e di Diego Zandel, nato nel campo profughi di Servigliano, di Gianna e Oliviero Zoia. Incrociando tutti i loro ricordi si ha un quadro complesso, a volte idilliaco, di quella che fu l’articolata vita sociale del Villaggio giuliano-dalmata, che sicuramente, nel bene o nel male, ha costituito un unicum nel panorama – non certo roseo – dell’accoglienza dei profughi rifugiati in Italia. Bisogna precisare che il Villaggio non è da considerarsi un Campo profughi. Esempi di edilizia popolare per i profughi si contano in molte città italiane, basti pensare a Trieste, ma anche Torino, Genova, Milano, Novara. Il Villaggio giuliano di Roma, però, ha una sua particolarità, innanzitutto per il numero cospicuo di profughi accolti in un sito periferico della città, tutto a loro disposizione: intorno c’era poco o niente e questo ha permesso alla comunità giuliana di saldarsi molto. Il Villaggio, come viene spiegato nel documentario, era autosufficiente, perché accoglieva nel suo interno attività artigianali, commerciali e tra l’altro una chiesa, una scuola elementare, una palestra, una squadra di pallacanestro giunta fino in seria A, dal nome eloquente: A.S. Giuliana. Oggi può vantare monumenti caratteristici, opera dell’artista Amedeo Colella, associazioni culturali e un archivio-museo con una ricca biblioteca”.
Qual è la situazione in cui versa oggi il Villaggio?
“Le cose, inesorabilmente, sono lentamente cambiate: i padiglioni sono stati abbattuti e sostituiti con le palazzine che ci sono ancora oggi. La città di Roma ha inglobato il Villaggio nel più vasto Quartiere XXXI, che porta il nome della comunità, tanto che nella toponomastica di Roma capitale figura come Quartiere giuliano-dalmata. Sembra di capire, da queste testimonianze, che l’integrazione pienamente riuscita con la comunità italiana – romana in questo caso – abbia avuto un prezzo da pagare, ma il tempo trascorso, che ha portato via ormai la maggior parte dei primi abitanti del Villaggio, ha aperto anche nuove ed impensabili opportunità. Il futuro è nella cultura, è quanto afferma in chiusura il direttore Marino Micich. La cultura giuliano-dalmata ha nella capitale, e proprio nell’ex Villaggio giuliano, un fulcro importante, che attraverso le pietre dei mosaici, i documenti e i libri conservati nelle sedi delle varie associazioni culturali, permette la salvaguardia della memoria storica e la costruzione di un sano dialogo culturale europeo, valido per tutti e soprattutto utile per ricucire una comunità divisa dalla guerra, dalla furia ideologica e dall’esodo”.
C’è il desiderio che il cortometraggio venga presentato anche a Fiume e in Istria?
“Il video non è stato ancora presentato ufficialmente, contiamo di farlo a breve. Naturalmente è desiderabile che anche a Fiume e in Istria possa essere visto e diffuso. Torna di grande utilità per gli studenti delle scuole, con i quali l’Archivio Museo storico di Fiume lavora molto”.
Gianfranco Miksa