di ROBERTO SPAZZALI
A settant’anni dalla seconda guerra mondiale continua la raccolta di testimonianze tra i sopravvissuti. E’ un’operazione che si svolge ormai incessantemente da qualche decennio e pare non avere esaurito ancora il compito di contribuire ad una ricostruzione storica che non può esulare dalle fonti orali. Silva Bon in ”Generazione in guerra. Memorie della Trieste in divisa 1943-1945”, pubblicato dal Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasperini” (che sarà presentato venerdì alle 17.30 alla Libreria Italo Svevo, in via Battisti 6 a Trieste, da Dario Matiussi, Dunja Nanut e Biancastella Zanini), raccoglie sette testimonianze di triestini i quali, tra i 17 ed i 21 anni, ai tempi dell’occupazione tedesca, si trovarono davanti alla difficile condizione di fare o non fare una scelta. Insomma da che parte mettersi e soprattutto perché farlo.
Sono storie anche molto diverse tra loro quelle di Giovanni Talleri, Marino Ursini Bissi, Paolo Rossi, Antonio Comin, Fabio Forti, Licio Tellini, e di Riccardo Goruppi. E sono pure preziose perché Licio Tellini e Giovanni Talleri, già presidenti dell’Associazione deportati perseguitati politici italiani antifascisti, sono mancati da un po’ e qualcun altro non ha mai avuto occasione di lasciare in forma scritta la propria testimonianza.
Si diceva che sono storie molto diverse tra loro che spaziano da chi una uniforme non la voleva proprio indossare e suo malgrado dovette farlo (Paolo Rossi), a chi invece non attendeva altro di coronare il sogno di portare il cappello dell’alpino e per questo entrò nell’esercito della Repubblica Sociale, mosso pure dal convincimento che solo in quel modo si poteva difendere l’italianità della Venezia Giulia (Antonio Comin). C’è chi è stato partigiano (Licio Tellini e Riccardo Goruppi) e chi, invece, ha avuto il coraggio di respingere tutte le lusinghe per rimanere spiritualmente libero (Giovanni Talleri) e chi ancora ha conosciuto il lavoro coatto in opere militari che avevano lo scopo di controllare larghe masse di uomini piuttosto che garantire una difesa militare alla regione in caso di uno sbarco anglo-americano (Marino Ursini Bissi, Fabio Forti).
Ebbene tutte queste storie, così diverse, sono accomunate dal tragico epilogo dettato dal sistema concentranzionale: chi nei Kz germanici, chi nei campi di lavoro sull’altopiano del Taiano, in Istria, e chi nella Risiera di San Sabba. E non ci sono due storie identiche per motivazioni e scorrere dei fatti, proprio a dimostrazione della complessità del Novecento. Punizione, persecuzione, sfruttamento schiavistico del lavoro. Sono testimonianze che vanno lette e meditate, come quelle che offrono qualche nuovo elemento sulla vita all’interno della Risiera fino alla liberazione dei colà ristretti.
Silva Bon nella sua introduzione mette in luce alcune riflessioni piuttosto importanti, sgorgate proprio nel complesso lavoro di registrazione storica di queste memorie. Innanzi tutto l’autrice si pone la questione di fondo della maturità politica dei giovani di allora? Erano in grado di scegliere in piena coscienza, che cosa sapevano della politica, di vita democratica? In che misura le loro scelte iniziali furono condizionati dall’educazione (ma sarebbe più corretto dire istruzione) fascista, piuttosto che da una tradizione democratica familiare? Ecco allora emergere quanto il fascismo era riuscito a inculcare con il continuo richiamo alle virtù virili, alle preparazione fisica di una guerra che sarebbe ben presto scoppiata, soprattutto nelle generazioni degli anni del consenso e del periodo prebellico.
Ma già chi aveva fiuto per capire che le cose erano assai diverse si era reso conto di una tragedia annunciata: e qui bastavano un paio d’anni di differenza, come ha osservato molto bene Silva Bon, per rendere i singoli più o meno avvertiti. Pare che una tradizione democratica familiare abbia inciso molto meno, se non per casi più caratterizzati, e piuttosto l’esperienza provata sulla propria pelle: esperienza in grado di mutare completamente la vita di un giovane e di segnare quella che sarebbe venuta. Il difficile ritorno alla “normalità”, alla vita di tutti giorni. Da cui la difficoltà di farsi ascoltare o di trovarsi davanti a un comodo trasformismo morale che ha promosso prima il silenzio e poi la rimozione. Ecco allora l’esercizio affatto retorico proposta dalla Silva Bon, quello di mettere i suoi interlocutori nelle condizioni di raccontarsi, di dire ciò che l’età senile permette loro senza reticenze.
Il volume è impreziosito da due saggi dell’autrice in parte compresi nella monumentale ricerca “Libro dei deportati”, curata da Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia, e dalla prefazione di Dario Matiussi.