Intervento di Patrick Karlsen e Stelio Spadaro su Il Piccolo del 29 gennaio 2011
Il 13 luglio dello scorso anno, con un solenne atto istituzionale, si è simbolicamente chiusa la «questione adriatica».
In un’area storicamente plurale, come quella che va dal Goriziano alle isole e alle città della Dalmazia, ogni volta che si è voluto far coincidere nazione e Stato, al di fuori della libertà e della democrazia, abbiamo assistito a una dissipazione di popoli e di storie. Questa è la china lungo la quale si è andato disperdendo, a volte in modo irreparabile, il carattere multinazionale di quel territorio che noi italiani chiamiamo Venezia Giulia e gli sloveni e i croati chiamano Litorale; e da cui la stessa Trieste è uscita tristemente impoverita sul piano culturale, civile e politico.
Anche il 10 febbraio di quest’anno i cittadini italiani ricorderanno, in pieno spirito europeo, le vicende drammatiche dell’esodo dall’Adriatico orientale: vicende trascinatesi per decenni, che hanno smembrato un popolo e rischiato di «inghiottire» una civiltà. Così gli sloveni e i croati, in altre date, ricorderanno le circostanze altrettanto drammatiche in cui furono gettati da un regime e un’ideologia che pretendevano di relegarli, con odiosa presunzione, fra i popoli «senza storia». Le une e le altre sono pagine nere di una storia comune. Il 13 luglio ha solennemente riconosciuto i drammi del passato, con una reciproca assunzione di responsabilità e con l’impegno di rispettare ciascuno le memorie dell’altro, i dolori dell’altro. Noi tuttavia il passato sappiamo concluso.
Perché in questi decenni la pratica della democrazia, che riconosce la varietà e la pluralità come elementi costitutivi del vivere sociale ed è ormai patrimonio condiviso da tutti e tre gli Stati e i popoli, ha chiuso definitivamente la porta a tentazioni e nostalgie etnocentriche. Ora la stessa consapevolezza che i tre capi di Stato hanno saputo attestare riguardo alla storia va rivolta al futuro, con una comune lungimiranza. Infatti, gli egoismi nazionalisti collidono con gli interessi di tutti e tre gli Stati. Proprio questi reciproci, e rispettati, interessi ci spingono verso la prospettiva dell’integrazione adriatica, nella politica, nell’economia, nella cultura. Una prospettiva che impegna i tre Stati, e dev’essere la funzione e l’obiettivo della Croazia, della Slovenia e dell’Italia in quest’area del continente. Le miopie nazionaliste remano contro l’affermazione e lo sviluppo delle nostre regioni: l’Adriatico settentrionale peserà nel mondo che sta cambiando, e sarà un attore protagonista dell’Unione Europea, solo se imboccherà la strada dell’integrazione. Ed è per fortuna una strada che ha percorso silenziosamente, come un fiume carsico al di sotto degli scontri e delle lacerazioni apportate dal Novecento, il vissuto quotidiano e la coscienza interiore di tanti italiani, di tanti sloveni e di tanti croati. È un’integrazione «di fatto» custodita nel tempo grazie ai loro sforzi, spesso provenuti proprio dagli istriani, dai fiumani e dai dalmati di lingua italiana.
Di questa politica di unità e di integrazione, Trieste, può e deve essere nel nostro secolo il centro e il motore. Non è né un’utopia, né un’invenzione. È l’occasione per dimostrare di aver tratto le giuste lezioni dalla sua storia, così come già avevano capito in anni terribili i Foschiatti e gli Stuparich. Ed è il solo modo di volerle bene. Per farla contare nel futuro, per riscattarla dall’irrilevanza a cui la vogliono condannare tutti coloro che la inchiodano al passato.
Patrick Karlsen
Stelio Spadaro