Le cifre sono imponenti. Di 350.000 profughi istrodalmati giunti in Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, 100.000 sono passati per la nostra città, dal 1945 al 1960. Attualmente, 2011, di 50.000 circa residenti in regione, e siamo alla terza generazione, 25.000 sono rimasti in Udine e provincia.
Vogliamo le cifre dei totali transitati da queste parti? Nel 1945, tra rimpatriati e profughi, da Germania, Austria e Jugoslavia, arriviamo a 500.000. Cin-que-cento-mila in un solo anno, capite?
Questi sono i dati che mi arrivano per la prima volta alle orecchie, mentre divido un pomeriggio con Elio Varutti dentro il bar Al Fusâr (Al fusaio, memoria anch’esso di qualcosa, come spesso accade negli intrecci della storia: “le fusaie” e “le sedonarie” che scendevano dalla Carnia e poi si fermavano qui, in via Pradamano).
Il luogo è lo stesso che frequentavano i profughi, quando stavano al Centro di accoglienza di via Pradamano, dal 1947 al 1960, e si confondevano con gli autoctoni, dividendo magari qualche chiacchiera e un bicchiere di vino. Ma sempre di profughi si trattava, come mi racconta il professore, che nel suo libro dedicato all'argomento ha fatto entrare pezzi di verità umana sotto le diciture «mi gavevo un fio in brazo de 34 giorni e la fia de cinque anni tacada alla cotola… me ricordo che no jera savon per lavarse e per lavar i panussi del picio (pannolini del neonato)». Sono le parole di Elpida Chelleris, nativa di Isola d'Istria, che nell'odierna scuola Fermi di via Pradamano 21, ex ONB, Collegio Opera Nazionale Balilla, progettato da Ermes Midena negli anni Trenta, ci ha vissuto per ben tre anni prima di trovare una casa.
Elio Varutti di persone come queste ne ha intervistate 103 in tre anni e il suo lavoro, ricchissimo di fonti e materiali, è il primo dedicato a questo argomento in Italia.
«Gli istriani sono come i friulani», mi racconta sottovoce mentre, quasi asincrono, il busto sudato e nudo di Platinette riempie la replica di Amici nella televisione a muro (gli avventori pomeridiani del Fusâr paiono imbarazzati dall'evento). «Entrambi i popoli sono riservati», continua lo studioso (e io, con la coda dell'occhio alla tv, penso intanto: «Che amarezza, che distanza dalla discrezione»). «Così è soltanto dopo il 2004, quando nasce La giornata del ricordo, che gli ex profughi si sentono più tutelati e raccontano con più particolari anche la parte difficile della loro permanenza».
Se pensiamo che ancora oggi a Pola, per Olga, fisica nucleare all'università, dopo essersi alzata in piedi in una riunione e aver esclamato con orgoglio «mi son istriana», è stato d'obbligo il trasferimento a insegnare matematica in un liceo, ecco, viene da pensare soltanto questo: c'è ancora da aver paura.
«La prima grande città di accoglienza oltre il confine era questa, Udine, almeno fino al 1954, quando Trieste torna all'Italia e diventerà centro nevralgico. A Udine arrivano, per poi essere smistati in 109 destinazioni italiane». L’altra soluzione era andare direttamente verso Bari. «Il primo centro in realtà è il campo di via Gorizia. Là dal 1945 al 1947 ne giunsero circa 6000».
Alzo le sopracciglia, chissà che non parliamo finalmente del “leggendario” Villaggio Metallico; sono sicura che dal sociologo Varutti, così attento a un buon metodo storiografico, usciranno le mie future sicurezze. «Ah – azzardo io – il Villaggio Metallico, la baraccopoli delle indimenticabili foto di Tino da Udine, la bambina sdentata e sorridente con la bambola in grembo, dipinta da Dora Bassi…».
«Come le dicevo – prosegue il professore – i profughi nel 1945 riempiono le scuole in fondo a via Gorizia (Scuole Dante), posto ancor più fatiscente e bucherellato dalle bombe che l'ONB di via Pradamano». Ora non c'è più, peccato (Siamo andati a controllare). «Molti furono trasferiti poi nelle 40 baracche di metallo di via Monte Sei Busi. Lo chiamavano il Vilagio de fero». Ecco, ci siamo. Interpreto la mia curiosità e quella del lettore: perché queste costruzioni? «Erano state lasciate dagli inglesi, e dato che qualche profugo era militare, fu lo stesso esercito italiano che consentì a questi esuli di abitarle». Abitarle è una parola comoda, non erano di certo case, ma tutto sommato era meglio stare lì che sotto il cavalcavia Simonetti, dove Tino da Udine ha fotografato anche quel tipo di miseria all'aperto. In questi contesti non si tratta solo di profughi, ma di reduci, di sfollati, di senza tetto. Sono ai margini, punto e basta…
Ora via Monte Sei Busi è il campo rom, non ci sono più le baracche, perlomeno “quelle”. Usiamo le parole di Giuseppe Marsich, uno dei 103 intervistati: «Confinava col cimitero (Beivars) e dopo in città te capivi se un jera profugo, perché se fermava a vardar le vetrine dei salumifici… eh sì, perché in Jugoslavia le vetrine le jera svode e le gaveva una gran foto de Tito nel mezzo».
A me viene in mente un'opera degli artisti svizzeri Fischli e Weiss dedicata ai salumi nella loro pienezza “romantica”. Nel lavoro, del 1979, fette di prosciutto cotto e salsicce spuntano per raccontare scene di vita quotidiana sostituendosi alle cose e alle persone.
Tornando a noi, questa povera gente vivrà poi una vita reale al Villaggio Metallico, il che significa vedere entrare nella storia anche l'osteria (l'oste Piero), il negozio di alimentari, la chiesa. «Jera sfolai anche udinesi, perché i molava la casa per aver la buona uscita e cussì i viveva in baraca», citando un'altra fonte orale di Varutti.
Nel Vilagio de fero la gente si sposa, come si sposerà quella del Centro di via Pradamano. Quest'ultimi nella chiesa del Carmine di via Aquileia… e giù di corsa di nuovo al Centro a prestare l'abito alla successiva sposa. Vesti lunghe, rosa e azzurre. Sempre le stesse. Elio Varutti me lo racconta e ci inteneriamo. Poi usciamo verso le case popolari del Piano Fanfani, non sono distanti. Sono quelle di via delle Fornaci, anche loro sotto un cavalcavia. Sette palazzine per 70 alloggi, a firma: ingegner Ferdinando Vicentini Orgnani (1949). Qui nel 1953 ci nacque il nostro ospite. E qui dal centro di smistamento limitrofo, superando il bar Franzolini, arrivarono gli istriani, i dalmati, la gente di Fiume. “Quegli” italiani (ora ci sono africani e albanesi.)
Si è fatto buio. Lasciamo la zona di via Pradamano ed entriamo nelle luci della città (Sono ancora forti prima che il sindaco Honsell ne allenti la potenza). Arriviamo in via Casarsa (Cormor Alto). Eccoci al Villaggio Giuliano. Bene, dal numero civico 1 al 15, ci sono le case fatte per loro nel 1953 «coi schei dei americani». Più finemente: UNRRA-CASAS, piano d'intervento da parte dell'Ente delle Nazioni Unite. E chi se lo aspettava questo.
Elena Commessatti sul Messaggero Veneto del 30 gennaio 2011