di Ubaldo Casotto
Ho fatto in casa lo stesso test che feci quando uscì il film Katyn, allora c’erano ospiti alcuni amici e il ventaglio delle età rappresentate andava dai dieci anni di mio figlio agli oltre quaranta di una professoressa. Prima di vedere insieme il film di Wajda dovetti raccontare loro per sommi capi la vicenda storica, che non conoscevano. Questa volta il test riguardava le foibe, di cui ricorreva il giorno del ricordo giovedì scorso, 10 febbraio. La risposta meno deludente è stata: «Sì, le ho presenti, ma non riesco a fissarle bene nella memoria». Ho voluto andare oltre e ho chiesto cosa sapessero degli esuli istriani e dalmati. Sul volto dei miei interlocutori si è disegnato un punto interrogativo. Che non penso sia un tratto di ignoranza confinabile a quel consesso amical-familiare. E per questo ne scrivo.
Ne scrivo con una segreta aspirazione: che il dovere della memoria e della conoscenza della storia smetta di essere un ping-pong tra opposte fazioni politico-ideologiche, per cui chi parla di foibe e di esuli istriani è di “destra” e lo fa per “riequilibrare” un’egemonia culturale di “sinistra” che queste vicende ha tenute nascoste per troppi anni.
Vorrei poter essere libero di conoscere la verità, almeno quella fattuale, senza essere pregiudizialmente etichettato. Vorrei poter non considerare estraneo nulla di ciò che riguarda gli uomini e la loro vita, soprattutto quando questa è carica di fatica e di dolore. Vorrei che storie come quelle di cui scrivo oggi fossero normalmente riportate nei libri di testo e insegnate a scuola, non per revanche storico-ideologica con in mano il bilancino: un tot di lager, un tot di gulag, una strage fascista, un’eccidio partigiano…, ma per far conoscere ai nostri figli quale intreccio inestricabile sia la storia di un popolo come il nostro ed evitare loro per quanto possibile la tentazione del manicheismo come criterio di giudizio storico e sociale.
La vicenda degli esuli istriani e dalmati, sotto questo aspetto, mi sembra emblematica. Infoibati, fuggiti, perseguitati, incarcerati, internati nei campo di concentramento, torturati, fucilati. Tra loro ci sono funzionari convinti del partito fascista, persone indifferenti al regime preoccupati solo di poter lavorare, antifascisti, partigiani, socialisti, comunisti. Credenti e atei. Uomini e donne.
Sono trecentocinquantamila gli italiani scappati da quelle terre, lasciando là tutto tranne le loro persone e poco altro. Fra questo poco altro qualcuno, ed è un particolare che spiega più di qualsiasi analisi, ha portato con sé i propri cari defunti. Ci sono testimonianze che lo raccontano e le fotografie delle bare issate a bordo della motonave Toscana in partenza dal porto di Pola nell’inverno del 1947 che lo documentano visivamente. In quei mesi ventottomila dei trentaduemila abitanti abbandonarono la città istriana dopo aver inutilmente sigillato con assi e chiodi porte e finestre delle loro case. Il suono del ferro del martello sul ferro del chiodo era l’irreale rumore di sottofondo di Pola. Il paradosso di uno che si porta via i suoi morti perché sa che non potrà più tornare a pregare sulle loro tombe e nello stesso tempo pensa a proteggere la casa che, altrettanto certamente, sa che non vedrà più dice allo stesso tempo del dramma che agitava i cuori di quelle persone e della speranza che permette di continuare a vivere anche nelle situazioni più disperate, la stessa per cui decisero di partire.
Noi usiamo con facilità la parola speranza perché non pensiamo più che sia una virtù. Per capire quale forza di vita identifichi – tanto da stupire Dio stesso, come dice Charles Peguy («La speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. Me stesso. Questo è stupefacente. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domattina».) – si può leggere, ad esempio, la storia di Bruno De Bianchi, il racconto della fame nel campo di Borovnica, le fucilazioni per futili motivi, l’impiccagione per le braccia: «Si veniva issati per i polsi, legati dietro la schiena. Le articolazioni si spezzavano in un dolore lancinante» (Jan Bernas “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, Mursia). Oppure il racconto di Mafalda Coldan, che ha visto morire nelle foibe sette persone della sua famiglia; arrestata, torturata, condannata a morte a diciannove anni, caricata insieme ad altre centosettanta persone sulla Lina Campanella, una nave spinta addosso a una mina in mare aperto il 21 maggio 1945. I prigionieri erano bloccati a due a due con il filo di ferro, dovevano annegare tutti, l’uomo a cui era legato il suo destino riuscì a liberarla e le urlò di buttarsi in mare; chi cercava di aggrapparsi alle scialuppe sulle quali si erano rifugiati i carcerieri prima dell’affondamento veniva colpito in testa con il calcio del fucile. Si salvarono in quindici, furono subito ripresi e caricati su un camion diretto a una foiba. Tra questi suo fratello diciassettenne. All’ultimo momento, misteriosamente, lei fu fatta scendere. Nuovamente processata e condannata a dieci anni di “rieducazione”. È sintomatico, ed è anche un supplemento di crudeltà, che il tiranno senta il bisogno di vestire di legalità il suo arbitrio.
Di questa parvenza-parodia della giustizia il programma di “rieducazione” è l’apice. In quelle zone aveva il nome di Goli Otok, l’Isola Calva. Sergio Bormé, esule di Rovigno, militante del partito comunista, racconta i tre anni in cui fu costretto ad andare in giro con il cartello “fascista” appeso al collo, le botte prese e le botte date per ordine dei carcerieri agli altri prigionieri, le punizioni nella buca sotto il sole con l’urina delle guardie che pioveva dall’alto come unica bevanda. E racconta, infine, il disinteresse per la sua storia una volta giunto in Italia.
Quest’ultimo è stato, se possibile, ciò che più ha ferito gli esuli, non avere più un luogo in cui tornare (l’emigrante che torna alla fine di una vita ritrova casa sua, l’esule che tornasse a Pola no) e non avere una patria che li accogliesse (accogliere non vuol dire solo aprire le frontiere, ma anche le braccia). Alcuni esuli hanno passato ben otto anni nei campi profughi, altri hanno peregrinato su e giù per la penisola prima di trovare dimora, il loro treno non fu fatto entrare nella stazione di Bologna. «Se il treno dei fascisti si ferma in stazione tutto il compartimento di Bologna entra in scioperop e blocchiamo tutto il traffico ferroviario con il resto d’Italia» fu l’annuncio dell’altoparlante.
Non basta il tempo per lenire queste ferite. Il tempo di per sé è corruttore, porta alla rovina, tranne che abbia dentro un principio vitale, come un seme, e allora diventa fattore di costruzione. Il recupero della nostra storia può essere uno dei mattoni di questa edificazione, se non li usiamo per tirarceli addosso.