di Azra Nuhefendic su Il Piccolo del 25 febbraio 2011
Non rilasciava interviste volentieri Muammar Gheddafi. Ma i giornalisti jugoslavi godevano di un trattamento privilegiato, il risultato di una lunga amicizia tra il Colonnello e l'ex presidente Tito, nonché di stretti interessi economici tra i due Paesi: la Jugoslavia esportava in Libia armi e le forniva personale qualificato; in cambio la Libia ci riforniva di petrolio. Nel 1988 per la prima volta riuscii a ottenere un'intervista con Gheddafi per la radio e la Tv di Belgrado.
All'aeroporto di Tripoli fui accolta da persone che in teoria dovevano essere una sorta di colleghi, cioè impiegati del Ministero per le informazioni. Erano disponibili ma molto riservati, rigidi direi, parlavano solo lo stretto necessario. Con una limousine mi portarono in un lussuoso albergo nel centro della capitale. All'epoca in Libia c'erano pochi turisti, ancora meno degli uomini d'affari. L'hotel era bello, grande, lussuoso ma quasi vuoto. Prima di lasciarmi i "colleghi" mi dissero che non si sapeva quando mi avrebbe ricevuto il Colonnello, che l'intervista si sarebbe potuta fare subito oppure dopo giorni di attesa e che il Colonnello avrebbe potuto ricevermi in qualsiasi ora del giorno ma anche a notte fonda. Perciò non dovevo assolutamente allontanarmi dall'albergo.
I primi giorni non mi muovevo dal telefono, aspettavo nella lobby dell'albergo. Passarono tre giorni e nessuno si era fatto vivo. Trascorrevo intere giornate, fino a notte, camminando per i corridoi e le sale vuote. Guardavo con attenzione ogni persona che entrava sperando fosse quella che mi avrebbe portato dal "rais". La posizione era resa più scomoda e incerta da linee telefoniche pessime. Non potevo telefonare direttamente alla redazione, tutto si faceva tramite il centralino e, dopo ore di tentativi, quando finalmente riuscivo a ottenere la linea, in pochi minuti questa s'interrompeva. Perdevo la pazienza, cominciavo a dubitare della possibilità di fare l'intervista. Mi annoiavo, in certi momenti pensavo addirittura che qualcuno mi stesse prendendo in giro.
Il personale dell'albergo era molto gentile ma, a qualsiasi mia domanda, scuoteva la testa, sorrideva con simpatia e niente più. Successe come di solito: vennero senza preannuncio, quando ormai mi ero arresa e quando meno me l'aspettavo. In fretta mi caricarono nella limousine e mi portarono fuori dalla città. Dopo circa un'ora di viaggio ci fermammo, entrammo in un vasto spazio circondato da mura alte di cemento. Mi fecero accomodare in una grande tenda. L'arredamento era modesto, c'erano solo delle sedie, semplici, di paglia, dei tavolini per appoggiare la tazzina del tè nel centro, a un metro e mezzo una sedia altrettanto modesta, per terra alcuni tappeti. Pochi uomini della sua scorta.
Gheddafi entrò senza pomposità, una stretta di mano e ognuno nella propria sedia: così cominciava l'intervista. Parlava un ottimo inglese ma si faceva tradurre le domande e le riposte. Così guadagnava il tempo per pensare a cosa rispondere. Aveva l'atteggiamento di una persona qualsiasi, il che contribuiva ad aumentare il suo fascino. Ascoltava con pazienza e attenzione, calmo, rispondeva con parole precise, non faceva lunghi monologhi come altri capi di Stato che avevo potuto intervistare.
Era serio, nessuna traccia dell'"istrione" come spesso appariva. Era una persona intelligente, che aveva e sosteneva le proprie ragioni politiche e convinzioni ideologiche. L'intervista fu "leggera", cioè senza domande scomode. Il suo messaggio principale era il sostegno all'amicizia tra i due popoli e Paesi e l'importanza della "terza via", cioè del Movimento dei non allineati al quale appartenevano sia la Libia che la Jugoslavia. Era curioso come uno poteva essere musulmano e comunista nello stesso tempo. Dopo, mi chiesi quanto realmente fosse lui stesso a pretendere tutte quelle misure di sicurezza, d'incertezza e segretezza che lo circondavano e quanto invece era creato da quelli che gli stavano intorno.
La mia impressione fu che l'atmosfera che lo attorniava fosse creata dagli uomini che gli erano vicino, come spesso accade con i potenti. E che quella cerchia di collaboratori, ufficiali o ammiratori che cresceva, nello stesso tempo diminuiva il suo senso della realtà e del contatto con il mondo reale. Finito il mio lavoro volevo subito tornare a casa. Ma non si poteva. I "colleghi" avevano preparato un programma di visite al quale non potevo sottrarmi. Per altri due giorni mi fecero vedere alcuni siti archeologici, scuole, campi tipo boy-scout dove c'erano sia ragazze che ragazzi, fabbriche.
Poi, prima d'imbarcarmi sull'aereo, l'ultima sorpresa. Tra il mio bagaglio un grande pacco che non mi apparteneva. Dissi che quello non era mio. «E sì – rispose uno dei colleghi -, è un regalo del Colonnello». Era un televisore. Invano dissi che ne avevo già uno, che non mi serviva: niente. Tornai a casa con il "Libro verde" e la Tv. Alla dogana di Belgrado inutilmente cercai di spiegare che la Tv non era un acquisto ma un regalo. Niente. Fui costretta a pagare le tasse.
Nel 1991, quando la Jugoslavia stava per sparire, Gheddafi mandò un aereo per portare in Libia i giornalisti jugoslavi delle più importanti testate: voleva mandare un messaggio a tutti i popoli della Jugoslavia, di mettersi d'accordo, non litigare. «Ogni popolo ha il diritto di decidere del proprio destino, di usare la propria lingua, praticare la propria religione, per preservare le proprie ricchezze e respingere il predominio di altri» diceva il colonnello. Ma per noi era già tardi. La macchina della guerra era già avviata.