Nella storia della letteratura della nostra minoranza in Istria e a Fiume un affresco sfaccettato di quanto i «rimasti» hanno prodotto in oltre 60 anni, cercando di difendere un’identità sempre osteggiata
In quella bellissima baia l’inferno era per tutti. Per quelli che, in continuo ammollo fino al petto, dovevano paleggiare come forsennati e per quelli delle “aviere” (specie di tavole di legno con manici per portare sabbia o cemento, ndr), senza un attimo di sosta, come i somari legati alla ruota del pozzo. Se nei mesi estivi questo lavoro era ai limiti della sopportabilità, già con le prime bore d’ottobre si tramutava in una fatica di dannati».
Al tempo in cui Ligio Zanini tratteggiava nel romanzo «Martin Muma» la propria personale odissea di dissidente, era severamente proibito parlare, tantomeno scrivere, di Goli Otok, o «Isola Calva», lo scoglio degli orrori nascosto tra le meraviglie naturali dell’Alto Adriatico dove il Maresciallo Tito rinchiuse e torturò i comunisti filo-sovietici, dopo la rottura del 1948 con Mosca. Infatti, il libro dello scrittore e poeta istriano di Rovigno uscì solo nel 1990. Qualche decennio dopo l’elaborazione. Come Zanini, altre decine di artisti ed intellettuali della minoranza italiana produssero le loro opere in «una condizione d’isolamento culturale», sapendo di essere, in definitiva, «italiani sbagliati», secondo l’efficace definizione di Quarantotti Gambini, ripresa da Nelida Milani nella sua presentazione di «Le parole rimaste: storia della Letteratura della Comunità nazionale italiana (1945-2010)», per i tipi della Edit di Fiume.
Affresco di un mondo di frontiera, nel quale dirsi «italiani» ha significato per almeno quattro decenni vivere dentro un purgatorio in cui era imperativo legittimarsi continuamente come cittadini «degni» di rispetto nel nuovo Stato socialista. «Esodo» e «Goli Otok» erano inesistenti nella narrativa.
«Il cavallo di cartapesta» di Osvaldo Ramous, scritto tra il 1967 e il 1969 e pubblicato solo quarantanni dopo, è un classico esempio di questa «letteratura del silenzio». Il direttore del Dramma Italiano descrive la sua città, Fiume, completamente trasfigurata dopo la cessione alla Jugoslavia: «Camminando per le stesse vie i rincontri erano rarissimi. Altrepersone, facce sconosciute, espressioni per lui ermetiche, gli davano l’illusione di trovarsi in un ambiente nuo -vo e curioso. Ma l’assetto immutato delle case gli ricordava subito che quella era la sua città, e gli faceva provare l’avvilente sensazione di essere diventato straniero nel luogo stesso che gli aveva dato i natali».
I temi «scomodi» si potevano «intravvedere molto larvatamente fra le righe in poesia», annota la Milani, ella stessa esponente di spicco di quell’intellighenzia italiana in lotta tenace e perenne per non farsi «assimilare» dall’ondata slavizzatrice.
Per noi, lettori italiani, che solo da pochi anni abbiamo cominciato a familiarizzare con le foibe e l’esodo giuliano-dalmata, queste «Parole rimaste» sono la chiave di ingresso in un universo letterario semisconosciuto, che vale assolutamente la pena di conoscere. Perché è la voce colta di una «piccola Italia», quella di chi è rimasto anche a presidio tenace della cultura latino-veneta, in una terra di grandi passioni collettive e immani tragedie.
Valerio Di Donato
(courtesy MLH)