Foibe, tre buoni motivi per tacere sull’esodo
Oliva: «Il Trattato di Osimo? Servì per vendere più Fiat»
di Massimo Nardi, tratto da Speciale TG Modena Qui interviste (19 aprile 2011) – courtesy MLH
Il Giorno del Ricordo in Italia si celebra il 10 febbraio, ed è in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Istituito con la legge 92 del 30 marzo 2004, concede anche un riconoscimento ai congiunti degli infoibati: è grazie a questa legge che oggi in Italia si può parlare dell’esodo istriano, o giuliano-dalmata, avvenuto a partire dal 1945, dopo la fine della guerra.
Quando, cioè, la maggior parte della popolazione italiana di quelle regioni preferi abbandonare la propria casa e il proprio lavoro per la diffidenza (ma forse e meglio dire la paura) nei confronti del nuovo governo jugoslavo, in seguito all’occupazione di tali regioni da parte dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito. Della tragedia dell’esodo si occupa l’ultima fatica di Gianni Oliva, storico, politico e scrittore piemontese di fama nazionale: ‘Esuli’, edito da Mondadori è presente in edicola da poche settimane. «Questo esodo è stato taciuto per anni – spiega il professor Oliva -, anche per ragioni di Stato». Ragioni di Stalo che erano prettamente commerciali: per dirla in breve, era meglio lasciare perdere quelle terre per vendere qualche macchina della Fiat alla Jugoslavia e guardare qualche ora di Tele Capodistria.
Professore Oliva, prima di analizzare il suo ultimo libro, ‘Esuli’, una domanda iniziale, per inquadrare il tema. Questi esuli all’epoca non furono poi tanto amati, specialmente dal Partito comunista di allora: per quale motivo?
«Credo che ci siano varie motivazioni: la prima è che l’Italia ha perso la seconda guerra mondiale, ma ufficialmente ha fatto finta di vincerla. Il peso della sconfitta lo hanno pagato soltanto le persone che stavano sul confine Nord Orientale. Quelli che sono stati infoibati (tra le 8 e le 10mila persone) e i 300-350mila che furono costretti ad abbandonare Fiume, l’Istria e le altre terre, erano persone scomode, che ricordavano la sconfitta e quindi non se ne è parlato per una sorte di silenzio di Stato. Poi c’è stato un silenzio di partito, il Partito comunista italiano, che aveva tutto l’interesse a non parlare di Foibe perché l’eccidio era stato commesso da un partito ‘fratello”, che era quello del partito comunista jugoslavo. E poi per un terzo motivo, quello del silenzio internazionale, perché nel 1948 il maresciallo Tito è il primo leader comunista che rompe i rapporti con Stalin e diventa una sorte di incrinatura nel monolite comunista. L’occidente comincia a guardare a Tito non come un alleato, ma come un interlocutore che non si deve mettere in imbarazzo con domande difficili. E’ curioso notare che l’ambasciatore americano e quello inglese a Belgrado, fino al giugno 1948. ogni mese mandano al governo di Belgrado lunghi elenchi di italiani scomparsi, chiedendo loro notizie. Dal giugno 1948 quando si rompono i rapporti fra Stalin e Tito, più nessuno chiede nulla. E quindi sugli infoibati e sulla storia del Nord Est cade un silenzio. E, come sempre sui silenzi della storia, questi sono silenzi interessati, colpevoli e fatti di negazioni».
Da dove nasce la voglia di scrivere questo nuovo libro? Lei non è un profugo.
«No, non sono un profugo, non ho mai avuto rapporti con profughi, nè amici o fidanzate quando ero giovane. E’ un interesse di studio, perché ‘foibe’ è una parola che nel retro pensiero evocava qualcosa di sinistro, ma siccome a scuola nessuno ce ne aveva mai parlato non sapevo di cosa si trattasse esattamente. Poi all’inizio degli anni ’90, mentre mi trovavo a Washington per alcune ricerche sul periodo 1943-1945 e i rapporti fra alleati e resistenza, mi sono capitati in mano dei faldoni che riguardavano i rapporti italo-jugoslavi tra il ’45 e il ’48 e ho scoperto molto materiale che è presente anche in Italia, ma non è visibile, perché sono documenti ancora coperti da segreto, mentre negli Stati Uniti d’America o a Londra si possono consultare».
Lei ha intervistato molti esuli. Qual è il loro stato d’animo?
«Ho intervistato alcuni esuli di prima generazione, cioè quelli che sono partiti da quelle terre quando erano già grandi e alcuni esuli di seconda generazione, che sono partiti quando erano bambini o sono nati quando erano già qui. Direi che per gli esuli di prima generazione è una ferita che non si è mai rimarginata, perché l’esule non è un emigrante. Un emigrante è uno che fa una scommessa sul futuro, anche se parte dalla disperazione, dalla fame, dalla miseria. Scommette sul futuro, e il sogno di queste persone è quello di toma-re al proprio paese col vestito buono per dimostrare che ce l’ha fatta. Invece l’esule è uno che parte lasciando il proprio presente, lasciando il proprio passato, la propria storia, il proprio campanile, il cimitero dove ci sono i suoi cari, mandato via senza una ragione. Va soltanto a rimpiangere quello che ha perso. E io credo che per gli esuli di prima generazione sia stata un’esperienza tormentata, anche per quelli che sono usciti abbastanza in fretta dai campi profughi e si sono inseriti nella società. Penso a quelli che erano nella mia città di Torino, che in quegli anni hanno trovato occupazione alla Fiat, sia perché il lavoro delle persone provenienti dal Nord Est è sempre stato consideralo notevole e apprezzato, sia perché venivano fuori dalla repressione dovuta al comunismo e quindi dal punto di vista aziendale erano più affidabili in quegli anni. Anche questi, che sono riusciti ad inserirsi abbastanza in fretta, questo peso se lo sono portato fino alla tomba. Diverso è il discorso per i profughi di seconda generazione. Chi è nato qui si porta dietro la memoria familiare, il ricordo ne parla, e finalmente da qualche anno a questa parte grazie a quella legge, che lei ricordava può anche andare nelle scuole a fare testimonianza e contribuire a ridestare attenzione per un argomento così a lungo taciuto».
Quali forme di rimborso ebbero gli italiani esuli?
«Nessun rimborso, qui c’è la beffa che si aggiunge al danno. La Jugoslavia ad un certo punto ha versato all’Italia una somma che si aggirava attorno ai 117 miliardi di franchi oro, come indennizzo per tutto quello che era stato requisito ai profughi, depositandoli in una banca del Lussemburgo. Il governo italiano ha usato quei fondi, per pagare i danni di guerra fatti durante l’occupazione della Jugoslavia. Insomma una partita di giro per cui i danni di guerra li hanno pagati i profughi».
Le terre di provenienza di queste persone erano a maggioranza italiana?
«Le zone del Nord Est, l’Istria e la Dalmazia sono state da sempre delle terre mistilingue, che storicamente hanno fatto parte per secoli della Repubblica di Venezia. Dopo il trattato di Campoformio del 1797, sono entrati a far parte dell’impero Austro Ungarico. Ma la popolazione era nettamente divisa, nel senso che chi stava sulla costa al 90% era italiano dedito ad attività commerciali e quant’al-tro. Gli slavi stavano nell’interno ed erano principalmente occupali nell’agricoltura. Quindi nel loro insieme erano terre mistilingue, ma in realtà al 90% italiani».
Si potevano quindi definire territorio italiano?
«Si potevano definire territori italiani, ma l’interno si poteva definire territorio sloveno piuttosto che croato».
Il 10 novembre 1975 l’Italia, con il trattato di Osimo, chiude il suo contenzioso con la Jugoslavia. Eravamo obbligati a farlo?
«Il trattato di Osimo è la presa d’atto di una realtà che ormai durava da 30 anni. Nel senso che i confini che erano stati stabili sulla cosiddetta ‘linea Morgan’ dal nome del generale americano che li aveva tracciali su una cartina geografica e sono stati stabiliti il 12 giugno 1945. Ancor oggi sono grosso modo i confini tra l’Italia e la Slovenia. Quindi c’era nel 1975 il prendere atto di una situazione che da 30 anni era così. Più interessante sarebbe studiare le ragioni per cui nel 1975 è stato deciso di prendere atto di questo fatto. Se andiamo a guardare le ragioni scopriamo che Tito era venuto due anni prima in Italia era stato a Torino. Aveva fatto un accordo commerciale con la Fiat per aprire aziende Fiat in Jugoslavia. Nello stesso tempo Tito era in un momento di difficoltà al suo interno e quindi questa concessione è servita in qualche modo a rafforzarlo. Sono le ragioni di Stato che vanno al di sopra delle ragioni delle persone».
L’esodo fu dovuto in parte anche ai massacri fatti dai partigiani comunisti di Tito, ricordiamo le foibe. Quante furono le vittime?
«Oscillano fra gli 8mila e le 10rnila persone. Ma la cosa drammatica non è soltanto il numero, ma la brevità temporale in cui sono concentrati. Tito voleva annettere alla nuova Jugoslavia comunista tutta la zona mistilingua, l’Istria la Dalmazia ed arrivare alla zona dell’Isonzo. Quindi comprendendo nella nuova Jugoslavia Monfal-cone per i cantieri, Trieste per il porto e Gorizia perché snodo viario e ferroviario verso il centro Europa. Siccome a Yalta i grandi non aveva stabilito il confine futuro dell’Italia Nord Orientale, che poteva essere quella attuale, poteva essere quello precedente al 1918, come poteva essere altro ancora, Tito decide di spingere le sue truppe per arrivare a Trieste. E’ in quella zona prima degli angloamericani per creare una situazione di fatto. Arriva per primo il 30 di aprile e immediatamente Trieste cambia nome e inizia gli infoiba-menti. Da lì comincia l’eliminazione di tutti coloro che potevano opporsi all’annessione di quelle terre alla Jugoslavia. Quindi vengono eliminati tutti quei personaggi che avevano avuto ruoli nel passato regime fascista, ma viene eliminato anche tutto il comitato di liberazione della Venezia Giulia perché rappresentava la nuova Italia, quindi un’ostacolo ancora maggiore all’annessione. Furono sterminati tutti coloro che rappresentano lo Stato italiano, sia che fossero maestri, funzionari delle poste o il responsabile della capitaneria di porto. E’ evidente, che ci sono delle compromissioni da parte di elementi italiani, evidentemente filocomunisti, che preparano le liste, perché i partigiani, che arrivavano dalle montagne della Bosnia e del Montenegro, difficilmente sapevano a quali porte dovevano bussare. Il 12 giugno 1945 gli alleati, americani, inglesi e sovietici, trovano l’accordo su quella linea di confine di cui parlavamo prima, la linea Morgan, che è ancora quella attuale. A quel punto non ha più senso, per necessità politica, infoibare nessuno perché ormai il confine è definito. Ma per la popolazione italiana che rimane nella parte di territorio che resta alla Jugoslavia, c’è la paura di quello che è accaduto in quei 40 giorni e la paura di quello che potrà ancora accadere. Come l’Italia aveva imposto il suo nazionalismo nel ventennio, così Tito impose il nazionalismo slavo che vuol dire emarginare la comunità italiana ghettizzarla, eliminarla da qualsiasi posto di responsabilità. Ecco questo combinato di cose, la paura, l’inquietudine e la margina-lizzazione fanno percepire a quella generazione d’italiani che per loro non c’è futuro e così decidono dipartire. Ma decidono di partire, lo sottolineo, senza un decreto di espulsione: è stata una scelta cui sono stati costretti dalla situazione. Dico questo perché da un punto di vista psicologico è stato ancora peggio. Essere espulsi è subire un’angheria. Partire perché non si vede più futuro è fare una scelta portandosi dentro molto spesso il rammarico di averla fatta e con la paura di averla fatta sbagliandosi. L’Italia in cui questi profughi giungono, non è un’Italia particolarmente generosa, né particolarmente ricca: è un’Italia che esce dalla guerra, dove c’è distruzione e miseria. Perciò questi profughi vengono disseminati in 109 campi: ce ne sono in tutte le regioni, la maggior parte sono caserme abbandonate, vecchi campi usati per i prigionieri di guerra. A Roma abitano nelle baracche utilizzate dagli operai per costruire l’Eur. A Fertilia, vicino ad Alghero, nei capannoni di un’azienda agricola di una colonia di romagnoli. E in questa emergenza alcuni vivono per anni. Ho conosciuto anni fa una signora anziana, che piangendo mi disse: «Quando ero una ragazzina aprivo la finestra della mia camera e vedevo il mare Adriatico che si infrangeva sugli scogli di Rovigno. Nel giro di qualche settimana sono finita a Tortona: ci vergognavamo a dire che stavamo al campo profughi della caserma Passalacqua, per cui davamo un indirizzo e un numero civico. Nella caserma avevamo delle grandi camerate con coperte di lana appese ad un filo che separavano il box della mia famiglia da quelli delle altre. Non c’era una parola, un sussurro, un pianto che non venisse sentito anche dagli altri. Avevamo la cucina e i servizi igienici in comune: sono vissuta nell’emergenza di sette anni».
Un’ultima domanda: quante persone emigrarono da quelle terre?
«Circa 300mila persone, cioè il 90% degli italiani che abitavano quelle terre. Non è una cifra esatta, perché si possono contare solo quelli rimasti in Italia che si sono organizzati nelle associazioni profughi. Altri invece sono emigrati negli Stati Uniti, in Canada e in Australia e si sono dispersi».