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14 aprile ’47: Pola non vive più (L’Arena di Pola 28 apr)

Nel precedente numero de “L’Arena di Pola” abbiamo pubblicato un ampio articolo sull’Ufficio Zone di Confine sintetizzando quanto emerso sull’argomento dai saggi contenuti nel volume 2/2010 di “Qualestoria”, semestrale dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Accennando al saggio di Roberto Spazzali, avevamo annunciato che avremmo trattato a parte la minuziosa relazione sull’esodo da Pola spedita il 14 aprile 1947 all’Ufficio Zone di Confine presso la Presidenza del Consiglio dall’Ufficio staccato di Venezia dell’Ufficio per la Venezia Giulia presso il Ministero dell’Interno. Mantenendo la promessa, riportiamo qui la prima parte di questo documento così come trascritto alle pagine 95-105 della rivista. La seconda parte di questa importante relazione troverà spazio in una apposita pagina del prossimo numero de “L’Arena”.

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Gabinetto
Ufficio staccato di Venezia

 
Venezia, 14 aprile 1947

 
                                 Presidenza Consiglio Ministri
                                 Ufficio Confini
                                 ROMA
 
 
OGGETTO: dell’esodo di Pola

 
Ormai l’esodo della popolazione italiana di Pola si può considerare ultimato: Pola non vive più, la sua attività è ora limitata «alla giornata» poiché attende trepida il compimento del suo destino; può, davvero, considerarsi una città morta; severo ammo­nimento, questo, a chi baratta paesi e genti, così, senza ponderare i profondi legami storici e gli alti valori spirituali delle popolazioni italiane!
A tutt’oggi dal porto di Pola sono partite, verso il suolo patrio, circa 28.000 persone: tutte famiglie e persone che debbono riorganizzare la loro vita e, se occorre, riiniziarla: che hanno abbandonato, con serena decisa fermezza, ricordi, averi e – quel che più conta – i loro cari sepolti nelle verdi colline fra l’Istria ed il mare. E tutto questo non per movimento impulsivo o per sollecitazioni più o meno opportune, ma dopo ben ponderato e maturato esame: vi si è ragionato sopra, si è ben considerata la tremenda decisione e si è visto che la Patria vale più della casa o del terreno tramandato dai posteri e che ora si deve abbandonare.
I valori lasciati a Pola assommano a qualche decina di miliardi: eppure tutto è stato abbandonato con composta fierezza e senza recriminazioni. Quale pena ritornare adesso a Pola, in questa città che ai suoi tempi era così gioiosa, così piena di vita!
Né vale a ridarle soffio vitale i circa 300 nuovi cittadini colà giunti dall’Italia e dalle Zone A e B; veramente erano arrivati colà in maggior numero, ma solo 300 hanno deciso, momentaneamente, di fermarsi a Pola.
Non sta a me approfondire l’esame sulle cause che hanno determinato l’esodo di Pola, ma ritengo di non errare affermando che su tale irrefrenabile decisione abbiano notevolmente influito i 60 giorni di occupazione jugoslava della città: comunque, già da quando ebbero inizio le lunghe trattative per la compilazione del Trattato di pace, la popolazione polesana fece sapere che essa non avrebbe sopportato di essere divisa dall’Italia: e tale voce prendeva sempre più consistenza fino a divenire una decisione irrevocabile.
Ciò, evidentemente, assumeva l’aspetto di un movimento di imponenti proporzioni dato che le prime notizie facevano prevedere l’esodo di circa 8.000 nuclei familiari per complessive 25.000 persone circa; il trasporto, nelle vecchie province italiane, di circa 5.000 mc. di masserizie e di 6.000 tonnellate di materiali provenienti da impianti vari, nonché di circa 2.000 quadrupedi.
A tale movimento il Governo italiano non poteva rimanere estraneo, tanto più che della effettiva esecuzione dell’esodo si avevano già i primi sintomi con la partenza da Pola di quelle famiglie che si ritenevano più compromesse per i loro noti e tradizionali sentimenti di italianità e che per tale motivo avevano già subito dolorose angherie, se non addirittura l’eliminazione di qualche persona cara.
Ecco perché il Ministero dell’Interno ritenne opportuno, nei primi giorni dell’agosto 1946, costituire a Venezia un «Ufficio staccato» del proprio «Ufficio centrale Venezia Giulia», cui venne commesso di:
Approntare un piano organico per l’eventuale esodo della popolazione italiana da Pola e da altre località della Zona B;
Predisporre i vari e necessari ausili occorrenti ai profughi al momento della parten­za;
Prendere opportuni accordi con i competenti organi per l’opera di prima assistenza ai profughi e per il loro smistamento verso altre province.
L’attività, poi, di tale ufficio staccato venne anche assorbita da altre mansioni di differente natura, se pure indirettamente riflettentisi con l’esodo di Pola. Comunque, dopo appena un mese, l’Ufficio Venezia Giulia aveva già steso il «canovaccio» dell’organizzazione dell’esodo, il quale veniva suddiviso in due tempi: nel primo doveva aversi l’esodo delle cose, nel secondo quello delle persone. Necessitavano luoghi di raccolta per le cose ed occorreva decidere come sistemare le persone.
Per le cose vennero ricercati magazzini (e non fu facile poi il poterli ottenere data l’enorme quantità delle cose trasportate) nei porti di Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona e Brindisi; per la sistemazione di quelle persone che sarebbero affluite con mezzi forniti dallo Stato, vennero scelti come luoghi di smistamento i porti di Venezia e di Ancona.
Queste decisioni costituirono la direttiva principale che poi restò e si dimostrò la più adatta.
Prima d’inoltrarmi nella relazione, desidero ricordare l’opera continua ed infaticabile svolta in Pola dal «Comitato di assistenza per l’esodo»: questo Comitato – ingros­satosi con impiegati e salariati e preso sotto il diretto controllo dell’Ufficio Venezia Giulia nel momento cruciale dell’esodo – era composto di volontari, scelti fra le varie classi di cittadini polesani: esso ha provveduto al censimento delle famiglie e delle persone esulande, delle cose da trasportare, degli animali da trasferire e di quant’altro poteva riferirsi a questa storica pagina della città di Pola. Esso ha lavorato in piena Armonia con la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il suo lavoro preparatorio è stato di notevole ausilio allo svolgimento di tutte le varie operazioni inerenti all’esodo.

Trasferimento mobili
Molta attenzione e molte cure hanno rivolto i polesani al trasporto della propria mobilia nelle vecchie province italiane: costituiva, questa, difatti, tutta la ricchezza che essi potevano recare con loro! Ed altrettanta attenzione e cura è stata rivolta da parte dell’Ufficio Venezia Giulia nell’organizzare i servizi di trasporto e, quindi, di custodia delle masserizie. Si è iniziato con la faticosa ricerca di adatti magazzini nei porti di Meste, Venezia, Ravenna, Ancona e Brindisi: ottenere la concessione per l’uso non è stata cosa facile data la notevole quantità dei materiali da immagazzinare, ma comun­que si riuscì a trovare capaci ed adatti locali presso i Magazzini Generali di Trieste, il Provveditore al Porto di Venezia, i Silos granari del Candiano di Ravenna, il magazzino del Molo Trapezoidale di Ancona e l’idroporto militare di Brindisi.
Nelle prime tre città avrebbero dovuto essere raccolte le masserizie delle famiglie che intendevano trasferirsi nell’Italia settentrionale, in Ancona quelle di quanti si sarebbero fermati nell’Italia centro-meridionale ed in Brindisi i mobili delle famiglie trasferitesi nell’Italia meridionale e nelle Isole.
Intanto da parte del Comitato di assistenza per l’esodo venivano, in Pola, impartite tutte quelle disposizioni necessarie a ritrovare, in seguito, le proprie cose ed evitare, a queste, ogni possibile danneggiamento: veniva inoltre distribuita ad ogni famiglia una certa quantità di materiali occorrenti agli imballaggi: a tal uopo, da parte dell’Ufficio Venezia Giulia, tale Comitato era stato rifornito di oltre centro metri cubi di legname tavole e moraletti); di due tonnellate di chiodi; di duecentocinquanta chilometri di spago; di cento quintali di tela di canapa e juta e di oltre tremila balle di paglia.
Ed i polesani riponevano con cura nelle casse le loro cose, che erano un po’ tutto il loro mondo e si preparavano alla partenza: si provava una strana impressione ad andare a Pola in quei tempi: non si udiva che batter chiodi, non si assisteva che ad un continuo passaggio di casse di ogni genere e di imballi trasportati dai laboratori alle case, dalle falegnamerie alle abitazioni.
Ma molte famiglie, forse troppo precipitose, avevano già lasciato Pola e questo non costituiva, certo, un motivo di tranquillità per le persone meno abbienti le quali avendo visto che altri – a loro spese – avevano già trasportato ogni loro avere nelle vecchie province italiane, urgevano presso il Comitato esodo.
A ciò poi deve aggiungersi il motivo di panico che costituiva la prossima firma del trattato di pace.
Una particolare psicosi sovrastava la popolazione polesana in cui il timore di non giungere in tempo a partire, e di dover perciò restare divisa dalla Patria, superava il dolore di lasciare la propria città e le cose più care. Ma la tragedia che si abbatteva sulla propria terra, e l’incertezza ed i dubbi di ogni giorno avevano logorato i nervi di quella buona e tranquilla popolazione e perciò bastava un nonnulla per sollevarne lo spirito ed altrettanto per abbatterlo o metterlo in agitazione.
Ecco perché tutti vedevano nel 10 febbraio, giorno della firma del Trattato di pace, il termine ultimo per poter restare in Pola: come e quando tale voce sia sorta e come essa abbia preso forma non si sa: certo non era possibile smontarla e vani riuscirono gli sforzi svolti a tal riguardo dall’on. Pecorari, dall’on. Carignani e da questo ufficio. In tale clima, le famiglie meno abbienti urgevano verso il Comitato esodo il quale, a sua volta, attraverso propri esponenti inviati a Roma, faceva pressioni sul Governo incolpandolo del ritardo nel dare inizio all’esodo ed, implicitamente, riversa­va su di lui le responsabilità. A frenare tanta agitazione, giunse, verso la fine di dicembre, l’assenso del Governo ad iniziare le operazioni di esodo che però l’apposito Comitato aveva, di sua iniziativa, già dichiarato ufficialmente aperto fin dal 23 dicem­bre.
E così, mentre si affacciavano nuovi complicati problemi, veniva noleggiato, per calmare gli animi, attraverso il Comitato di assistenza per l’esodo, qualche natante onde trasportare negli altri previsti porti dell’Adriatico le masserizie delle famiglie meno abbienti. Intanto, e con ogni sollecitudine, da parte dell’Ufficio Venezia Giulia veniva bandito, secondo le disposizioni di legge, apposito concorso per il trasporto delle masserizie e materiali vari da Pola negli altri porti dell’Adriatico: ritengo che tale concorso sia nuovo nel suo genere, comunque ad esso parteciparono quattro ditte, di cui tre (Gondrand, SAIMA e Parisi) chiesero un rinvio del concorso stesso, mentre la quarta (ACOMIN) presentò concrete proposte, in perfetta corrispondenza col bando di concorso. La Capitaneria di Porto di Venezia in tale occasione fu, nella sua specifica competenza, con suggerimenti, pareri e consigli, di notevole ausilio all’Ufficio Venezia Giulia.
E così l’ACOMIN iniziò i suoi servizi il 23 gennaio 1947.
Per curare nel modo migliore i trasporti, fu previsto l’uso di motovelieri di piccolo tonnellaggio affinché l’eccessivo peso non gravasse troppo sui mobili sottostanti; si provvide ad assicurare – nel modo più ampio – tutte le merci trasportate, prevedendo anche il furto, i rischi di mine e torpedini e quelli politici; qui occorre essere grati anche alla Società «Assicurazioni Generali» la quale, in unione ad altre società di assicura­zione, volle praticare, in tale occasione, condizioni e tassi di favore.
Indubbiamente il momento prescelto per tali trasporti non fu ideale: nel cuore dell’inverno e di un inverno molto duro che ostacolava la navigazione marittima; usando un porto privo di magazzini ove poter ricoverare le masserizie da spedire, il che si rendeva quanto mai necessario per sollecitare i trasporti.
Qui occorrerebbe fare una parentesi nei riguardi delle autorità alleate, molto gentili e premurose, larghe di promesse; ma purtroppo queste restarono sempre tali al momento della realizzazione, se si toglie la concessione di un certo numero di autocar­ri: ma ci si «arrangiò» e tutto si compì nel miglior modo possibile.
Poiché l’Ufficio Venezia Giulia doveva anche preoccuparsi che durante queste operazioni lavorasse la massa dei disoccupati, che si riscontrava numerosa nella città di Pola, e particolarmente reduci e partigiani, già nel bando di concorso veniva previsto che la ditta accollataria dei servizi di trasporto avrebbe ricevuto i materiali «in stiva». Pertanto venne costituita in Pola la «cooperativa trasporti Itala» cui vennero dati in gestione gli autocarri alleati: tale ditta ritirava a domicilio le masseri­zie e le recava in banchina; il carico da banchina a natante doveva venire effettuato, per le disposizioni portuali, dai caricatori specializzati del porto i quali, non sempre benevoli nei nostri riguardi, non eseguivano il lavoro di carico con la dovuta cura e sollecitudine.
È bene rilevare che tutti tali servizi venivano eseguiti gratuitamente, su ordine del Comitato esodo, a favore dei disoccupati, dei pensionati e delle famiglie meno abbienti, provvedendo gli altri a spese proprie.
In tal modo, dal 23 gennaio al 15 marzo, «la Cooperativa Itala» ha compiuto 4.200 trasporti; la ditta ACOMIN, con 157 viaggi via mare, ha recato da Pola negli altri previsti porti dell’Adriatico circa 55.000 metri cubi di masserizie e materiali vari.
Contemporaneamente, mercé la solidale assistenza delle Ferrovie dello Stato, partivano da Pola altri 10.000 metri cubi fra masserizie e materiali vari, usufruendo di 1.210 vagoni ferroviari.
Le Società assicuratrici attestano che il valore assicurato (l’assicurazione delle merci avveniva dietro controllo ed in contraddittorio con funzionari della Dogana) superi il miliardo e mezzo.
Purtroppo, sotto l’assillo dell’urgenza e delle continue premure che gli interessati rivolgevano per tali servizi, si è lamentata qualche lacuna e soprattutto quella della partenza di molti natanti senza foglio di navigazione (polizza di carico), talché non era possibile eseguire il dovuto controllo delle merci caricate in confronto a quella sbarcata: e di ciò ha purtroppo approfittato qualche marinaio il quale, con atto veramente abominevole, si è appropriato di cose di proprietà degli esuli: al riguardo sono in corso indagini ed accertamenti, tanto che molta refurtiva è stata già recuperata.
Comunque, anche per l’art. 6 del contratto di servizi di trasporto, dell’opera degli equipaggi risponde la società ACOMIN.
Desidero qui ricordare l’opera della Marina da guerra la quale ha messo a disposizione dell’Ufficio Venezia Giulia, per l’esodo delle masserizie, due piroscafi, il «Montecucco» ed il «Messina»; il primo ha recato, il 26 febbraio, masserizie a Brindisi, in Sicilia ed in Sardegna, ed il secondo ha trasportato, nei primi giorni di marzo, altro materiale del genere a Brindisi ed a Taranto: complessivamente circa 1.500 metri cubi di masserizie.
In seguito a tali trasporti, si ha la seguente situazione di magazzini:
a Trieste giacciono metri cubi           22.616
a Venezia      “             “        “          20.697
a Ravenna    “             “        “             2.105
ad Ancona     “             “        “              288
a Brindisi       “              “        “           1.100
Altre masserizie o materiali sono stati trasportati a Monfalcone, a Muggia, Grado, Pescara ecc. sempre a spese dell’Ufficio Venezia Giulia, ma sbarcati a spese e cura degli stessi proprietari.
Le cose trasportate via terra avevano, in generale, già una propria destinazione e, pertanto, al loro ritiro hanno provveduto direttamente gli interessati. Per gli animali, nonostante l’intervento del Ministero dell’Agricoltura e Foreste attraverso l’Ispettorato Agrario Compartimentale di Venezia e la Direzione Generale dell’Ente Nazionale Tre Venezie, hanno provveduto i rispettivi proprietari, tranne per tre mucche, trasportate a Venezia col piroscafo «Venezia» e destinate a Sabaudia

(continua nel prossimo numero)

(courtesy MLH)

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