Il giornalista testimone dei bombardamenti che hanno distrutto la città dalmata
Rossini e il martirio di Zara
L’attacco al panfilo di Guglielmo Marconi
“Penso di essere, a ragion veduta, uno dei pochissimi testimoni italiani ancora viventi che hanno assistito, nelle circostanze che esporrò nelle pagine che seguono, alla totale distruzione della città di Zara, nel novembre-dicembre 1943, ad opera delle fortezze volanti americane”. Così scrive Wolfango Rossani, all’anagrafe Sigfrido Rossi, nato a Guastalla nel 1909, nella premessa del suo libro “Zara brucia. E altre memorie di guerra e di vita” pubblicato nel 2001 (Editrice Bolognese). Storie e personaggi lo scorso 10 gennaio aveva ricordato la storia del conte romagnolo Pietro Montesi Righetti, che si trovava a Zara al comando della 107a Legione Camicie Nere Francesco Rismondo; nella vicenda era stata riportata la testimonianza di Rossani sui bombardamenti che hanno martoriato la città dalmata attraverso un articolo pubblicato dall’Osservatore Romano il 18 luglio 1983. Rossani aveva svolto il praticantato presso il “Giornale di Dalmazia”. Negli anni ’30 aveva cominciato a collaborare alla “Fiera letteraria” e alla terza pagina di alcuni quotidiani, tra i quali “L’Avvenire d’Italia”, con articoli legati alla sfera estetica, sulle orme della lezione impartita da Benedetto Croce. Tornato a Bologna, dal 1945 e fino al 1970 era stato redattore de “Il Resto del Carlino”, dedicandosi in particolare alla critica letteraria. Numerosi i suoi scritti consultabili presso importanti biblioteche, come quella dell’Università di Bologna. Negli ultimi anni oltre a “Zara brucia”, aveva pubblicato alcune variazioni letterarie. E’ morto nel 2002.
Aldo Viroli
Il destino di Zara, per effetto dei bombardamenti sistematici ad opera degli alleati, è abbastanza simile a quello di Rimini. Tra il 1943 e l’autunno 1944 la città dalmata è stata oggetto di una cinquantina di azioni aeree che hanno causato circa 2.000 morti, un tributo di sangue altissimo tenuto conto che la popolazione di Zara in quel periodo era di circa 12.000 abitanti. “Una delle più splendide città della Dalmazia venne demolita nelle sue strutture civili e portuali, nei suoi bellissimi monumenti antichi, gloriosa testimonianza di una civiltà veneta che copre più di un millennio di storia”. Così, in “Zara brucia”, Rossani manifesta il suo attaccamento alla città martoriata dalle fortezze volanti americane. Nella premessa il giornalista racconta il suo arrivo a Zara con il piroscafo da Ancona. Siamo nell’aprile 1941: “Mi guardai attorno e restai abbacinato da tanta bellezza; non conoscevo la Dalmazia e non sapevo che essa fosse così rigogliosa e luminosa e così simile, sotto tanti aspetti alla civiltà veneta da cui storicamente dipende”. Rossani definisce Zara una seconda Venezia in miniatura: “Gli stessi calli, le stesse chiese – una delle quali, cioè la cattedrale romanico gotica, di splendida fattura con il suo elegante campanile – che ricordano gli analoghi edifici religiosi che si trovano nel nord del Veneto; con delle stradine strette, sinuose che conducono ai moli che circondano praticamente tutto l’abitato bagnato dalle acque del mare; un complesso architettonico fiorito e colorito, su cui piomba dall’alto una luce intensa, la luce del sole bagnato d’azzurro”. Rossani racconta di essersi trasferito da Bologna a Zara per lavorare con il quotidiano “Giornale di Dalmazia” che sarebbe uscito l’anno successivo; il suo compito era quello di curare la terza pagina. Il lavoro è impegnativo, lui accetta i sacrifici che gli consentiranno l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti. Rossani, alcuni mesi prima dei tragici eventi che ridurranno Zara a un cumulo di macerie, era stato richiamato sotto le armi essendo caduto il decreto di esonero per gli studenti universitari che stavano completando i loro corsi. Questa situazione avrebbe comportato per il giornalista l’obbligo di vivere in caserma come soldato semplice, senza poter continuare il lavoro in redazione. A trovare una soluzione si era impegnato il direttore, che aveva ottenuto dal comandante del Distretto militare di Zara il distacco al giornale senza obbligo di indossare la divisa. Rossani è a Zara quando arriva l’8 settembre: nel giro di una settimana i tedeschi, del tutto indisturbati, occupano la città. Il “Giornale di Dalmazia” diventa bilingue e viene nominato direttore uno zaratino di totale fiducia degli occupanti. Un articolo di fondo della pagina pubblicata in tedesco annunciava che in caso di vittoria delle potenze dell’Asse, data per certa, la Dalmazia sarebbe stata incorporata a tutti gli effetti nel grande Reich. “Ce n’era abbastanza – scrive Rossani – per fare inorridire gli stessi zaratini di fede fascista, alcuni dei quali lavoravano da tempo con noi. Ed essi in quella circostanza si dissero pronti a passare nelle fila dei partigiani slavi al comando del generale Tito, come in effetti avvenne più tardi”. Rossani nel capitolo “Giorni tragici” descrive poi il primo massiccio bombardamento su Zara: “Ad un certo punto, nel vasto specchio di mare che mi era di lato e a una distanza di un centinaio di metri e forse più, si alzarono gigantesche colonne di fumo e di schiuma nerastra seguiti da schianti terribili e laceranti; erano le prime bombe, forse deviate dalla forte bora che soffiava in alto, che doveva cadere su Zara e che poi sarebbero cadute in abbondanza; era questo il primo bombardamento massiccio che gli inglesi – come si seppe poi – stavano effettuando sulla città dalmata provenendo dall’interno della Croazia”. Nel capitolo “Una città in fiamme”, Rossani offre una drammatica testimonianza su uno di quei micidiali bombardamenti: “Visione davvero terrifica e per me allora quasi apocalittica perché ebbi la netta sensazione che non ne sarei uscito vivo”. Quando iniziano a cadere le bombe, sono le 10, il giornalista si trova in strada; assieme ad altre persone salta dentro una specie di trincea di fianco ad una casa in costruzione e riesce a coprirla con delle travi. La pioggia di fuoco dura almeno un’ora: “al termine volsi lo sguardo verso Zara e in quel momento stampai nel mio spirito una raffigurazione dell’immane flagello che non si sarebbe cancellata mai più e che vedo ancora a distanza di oltre mezzo secolo”. E descrive con commossa partecipazione il dolore di una madre che tiene tra le braccia il corpo senza vita del figlioletto: “camminava lungo la banchina del porticciolo elevando un urlo straziante come di bestia gravemente ferita; alzava e abbassava ripetutamente la testa sul corpo inerme del suo piccino. Era come impazzita”. Rossani racconta anche la terribile fine di alcuni zaratini che avevano cercato la salvezza in un rifugio improvvisato: “Mi avvidi che diverse persone cercavano di farsi udire urlando a gran voce attraverso le feritoie di un lungo rifugio in cemento armato, la cui entrata era stata colpita da una grossa bomba; ma nessuno di quelli che si erano rifugiati nel tunnel era rimasto vivo. Ed anche in questo caso una vera strage di innocenti, dovuta al fatto che questo rifugio era stato costruito in una località vicina a una fortificazione militare che gli inglesi avevano individuato dall’alto”. Così scrive Rossani nell’articolo pubblicato da “L’Osservatore Romano” del 18 luglio 1983: “Fui così in grado di assistere all’arrivo delle fortezze volanti americane e subito dopo ad una scena sconvolgente: dalle strade, dalle banchine, dalle case e dal mare che bagna Zara, si alzavano altissime colonne di fumo e di fuoco seguite da tremendi boati. La povera città era colpita a morte: sullo sfondo del cielo si veniva stagliando un pauroso scenario di fiamme. Un quadro apocalittico allucinante, di fronte al quale ebbi netta la sensazione che le nostre vite erano attaccate ad un filo e che il nostro destino si presentava terribile. Ho potuto assistere alla lenta ed atroce agonia dell’antica e gloriosa città dalmata (Zara) che diventò una sorta di bersaglio dell’aviazione inglese e americana. Nel corso di poche settimane Zara subì un tragico destino: il suo porto, le sue banchine di marmo bianco, le sue strade, le sue piazze di struttura veneziana, le sue bellissime chiese romaniche e le sue colorite abitazioni furono spezzate, sgretolate, smozzicate e, per dirla con un famoso verso carducciano “pa-rean fai di scheletri in cimitero”. Vista la situazione drammatica che si era venuta a creare in città, Rossani prende assieme a un’amica bolognese che aveva trovato lavoro come segretaria al “Giornale di Dalmazia”, la decisione di allontanarsi dalla zona di guerra. Così i due trovano rifugio in una località vicina, Diclo, nella capanna di un contadino che li ospita in cambio di mobilio. Nel capitolo “La nostra fuga”, Rossani descrive la fine dell’Elettra, il panfilo di Guglielmo Marconi. Mentre si trovava a pochi chilometri da Diclo, nota immobile nello specchio d’acqua una nave elegante di colore bianco, di cui al momento ignorava l’identità. Mentre la stava osservando, dal lontano orizzonte il giornalista scorge otto caccia bombardieri americani, che pochi secondi dopo piombano in verticale sulla nave a rotazione mentre dei soldati tedeschi sparavano, invano, dalla tolda dell’unità navale con le loro mitraglie contro i caccia. “In brevissimi istanti – scrive Rossani – mentre io mi ero riparato dietro a una masiera e guardavo terrorizzato, ma anche incuriosito, come sarebbe andata a finire – gli otto caccia centrarono la bella nave riducendola a uno scheletro dentro un mare di fiamme. Nessuno era intorno a me, neppure le sentinelle tedesche che, come si è detto, si erano allontanate; e mentre stavo guardando la fine di quella nave misteriosa non sapevo – come appresi più tardi -che si trattava nientemeno dell’Elettra, la nave celebre su cui Marconi nel marzo 1930, con un impulso radiotelegrafico, aveva acceso le luci del municipio di Sidney e sulla quale egli aveva fatto, nel corso della sa vita, tanti altri esperimenti importanti. Ora penso di essere stato l’unico italiano che, in quel tragico frangente, fu in grado di vedere, non veduto, l’agonia dell’Elettra, la cui carcassa sarebbe rimasta nel mare di Diclo per circa un decennio e solo nel 1956 sarebbe stata recuperata per riattarla come monumento storico e documentato delle prove geniali di Marconi”. Rossani viene a sapere che a Zara c’era un sacerdote coraggioso che conoscendo perfettamente la lingua tedesca, si era messo in contatto con il comando locale per ottenere che almeno le donne e i bambini potessero venire messi in salvo imbarcandosi su una nave della Croce Rossa. Rossani e l’amica riusciranno a imbarcarsi su quella nave, che verrà poi a sapere utilizzata dai tedeschi, in spregio alle convenzioni internazionali, per il trasporto di armi, e a raggiungere Pola. Dal capoluogo della provincia dell’Istria il giornalista prosegue in treno fino a Venezia dove si era trasferito il Minculpop (il Ministero della Cultura popolare); si trattiene nella città lagunare diversi giorni, fino a quando ottiene la liquidazione per il servizio prestato al “Giornale di Dalmazia”. Poi attraverso un viaggio avventuroso in auto, aveva ottenuto un passaggio da una misteriosa signora che si spostava con il figlio grazie a un lasciapassare che faceva scattare i tedeschi sull’attenti, riesce a raggiungere Bologna, dove ritrova i genitori. Rossani è anche testimone della liberazione di Bologna e di quando la folla festante si accorge, con senso di orrore e sgomento, che ai piedi del palazzo comunale, dove è stata poi collocata la lapide dedicata ai caduti partigiani, giacevano i cadaveri martoriati di alcuni caduti per la libertà. Attraverso Internet è possibile rintracciare diverse opere di Rossani poste in vendita da qualificate librerie antiquarie. Tra i titoli “Il cinema e le sue forme espressive. Appunti di critica estetica” pubblicato nel 1940 a Fiume e stampato dalla tipografia della “Vedetta d’Italia”, il giornale del capoluogo del Carnaro. Diverse opere sono conservate presso importanti biblioteche.
Un rigraziamento al giornalista Paolo Barnard, figlio di Rossani, per aver fornito “Zara brucia” da tempo esaurito.
(courtesy MLH)