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Rossani e il martirio di Zara (Voce di Romagna 16 mag)

Il giornalista testimone dei bombardamenti che hanno distrutto la città dalmata

Rossini e il martirio di Zara

L’attacco al  panfilo di Guglielmo Marconi

“Penso di essere, a ragion veduta, uno dei pochissimi testimoni italiani ancora viventi che hanno assistito, nelle circostanze che esporrò nelle pagine che seguono, alla totale distruzione della città di Zara, nel novembre-dicembre 1943, ad opera delle fortez­ze volanti americane”. Così scrive Wolfango Rossani, all’anagrafe Sigfrido Rossi, nato a Guastalla nel 1909, nella premessa del suo libro “Zara brucia. E altre memorie di guerra e di vita” pubblica­to nel 2001 (Editrice Bolognese). Storie e personaggi lo scorso 10 gennaio aveva ricordato la storia del conte romagnolo Pietro Montesi Righetti, che si trovava a Zara al comando della 107a Legione Camicie Nere Francesco Rismondo; nella vicenda era stata ripor­tata la testimonianza di Rossani sui bombardamenti che hanno martoriato la città dalmata attraverso un articolo pubblicato dal­l’Osservatore Romano il 18 luglio 1983. Rossani aveva svolto il praticantato presso il “Giornale di Dalmazia”. Negli anni ’30 ave­va cominciato a collaborare alla “Fiera letteraria” e alla terza pa­gina di alcuni quotidiani, tra i quali “L’Avvenire d’Italia”, con ar­ticoli legati alla sfera estetica, sulle orme della lezione impartita da Benedetto Croce. Tornato a Bologna, dal 1945 e fino al 1970 era stato redattore de “Il Resto del Carlino”, dedicandosi in parti­colare alla critica letteraria. Numerosi i suoi scritti consultabili presso importanti biblioteche, come quella dell’Università di Bo­logna. Negli ultimi anni oltre a “Zara brucia”, aveva pubblicato alcune variazioni letterarie. E’ morto nel 2002.

Aldo Viroli

 

Il destino di Zara, per effetto dei bombardamenti sistematici ad opera degli alleati, è abbastanza simile a quello di Rimini. Tra il 1943 e l’autunno 1944 la città dal­mata è stata oggetto di una cin­quantina di azioni aeree che han­no causato circa 2.000 morti, un tributo di sangue altissimo tenuto conto che la popolazione di Zara in quel periodo era di circa 12.000 abitanti. “Una delle più splendide città della Dalmazia venne demolita nelle sue strutture civili e portuali, nei suoi bellissi­mi monumenti antichi, gloriosa testimonianza di una civiltà vene­ta che copre più di un millennio di storia”. Così, in “Zara brucia”, Rossani manifesta il suo attacca­mento alla città martoriata dalle fortezze volanti americane. Nella premessa il giornalista racconta il suo arrivo a Zara con il piroscafo da Ancona. Siamo nell’aprile 1941: “Mi guardai attorno e restai abbacinato da tanta bellezza; non conoscevo la Dalmazia e non sa­pevo che essa fosse così rigogliosa e luminosa e così simile, sotto tan­ti aspetti alla civiltà veneta da cui storicamente dipende”. Rossani definisce Zara una seconda Vene­zia in miniatura: “Gli stessi calli, le stesse chiese – una delle quali, cioè la cattedrale romanico gotica, di splendida fattura con il suo ele­gante campanile – che ricordano gli analoghi edifici religiosi che si trovano nel nord del Veneto; con delle stradine strette, sinuose che conducono ai moli che circonda­no praticamente tutto l’abitato ba­gnato dalle acque del mare; un complesso architettonico fiorito e colorito, su cui piomba dall’alto una luce intensa, la luce del sole bagnato d’azzurro”. Rossani rac­conta di essersi trasferito da Bolo­gna a Zara per lavorare con il quo­tidiano “Giornale di Dalmazia” che sarebbe uscito l’anno succes­sivo; il suo compito era quello di curare la terza pagina. Il lavoro è impegnativo, lui accetta i sacrifici che gli consentiranno l’iscrizione all’albo dei giornali­sti    professionisti. Rossani, alcuni mesi prima  dei tragici eventi che ridurranno Zara a un cumulo di macerie, era stato ri­chiamato sotto le armi essendo caduto il de­creto di esonero per gli studenti universitari che stavano completando i loro corsi. Questa situazione avrebbe comportato per il giornalista l’ob­bligo di vivere in caserma come soldato semplice, senza poter con­tinuare il lavoro in redazione. A trovare una soluzione si era impe­gnato il direttore, che aveva otte­nuto dal comandante del Distret­to militare di Zara il distacco al giornale senza obbligo di indossa­re la divisa. Rossani è a Zara quando arriva l’8 settembre: nel giro di una settimana i tedeschi, del tutto indisturbati, occupano la città. Il “Giornale di Dalmazia” diventa bilingue e viene nominato direttore uno zaratino di totale fi­ducia degli occupanti. Un articolo di fondo della pagina pubblicata in tedesco annunciava che in caso di vittoria delle potenze dell’Asse, data per certa, la Dalmazia sareb­be stata incorporata a tutti gli ef­fetti nel grande Reich. “Ce n’era abbastanza – scrive Rossani – per fare inorridire gli stessi zaratini di fede fascista, alcuni dei quali lavo­ravano da tempo con noi. Ed essi in quella circostanza si dissero pronti a passare nelle fila dei partigiani sla­vi al comando del ge­nerale Tito, come in effetti avvenne più tardi”. Rossani nel ca­pitolo “Giorni tragi­ci” descrive poi il pri­mo massiccio bom­bardamento su Zara: “Ad un certo punto, nel vasto specchio di mare che mi era di la­to e a una distanza di un centinaio di metri e forse più, si alzarono gi­gantesche colonne di fumo e di schiuma nerastra seguiti da schianti terribili e laceranti; erano le prime bombe, forse deviate dal­la forte bora che soffiava in alto, che doveva cadere su Zara e che poi sarebbero cadute in abbon­danza; era questo il primo bom­bardamento massiccio che gli in­glesi – come si seppe poi – stavano effettuando sulla città dalmata provenendo dall’interno della Croazia”. Nel capitolo “Una città in fiamme”, Rossani offre una drammatica testimonianza su uno di quei micidiali bombardamenti: “Visione davvero terrifica e per me allora quasi apocalittica per­ché ebbi la netta sensazione che non ne sarei uscito vivo”. Quando iniziano a cadere le bombe, sono le 10, il giornalista si trova in stra­da; assieme ad altre persone salta dentro una specie di trincea di fianco ad una casa in costruzione e riesce a coprirla con delle travi. La pioggia di fuoco dura almeno un’ora: “al termine volsi lo sguar­do verso Zara e in quel momento stampai nel mio spirito una raffi­gurazione dell’immane flagello che non si sarebbe cancellata mai più e che vedo ancora a distanza di oltre mezzo secolo”. E descrive con commossa partecipazione il dolore di una madre che tiene tra le braccia il corpo senza vita del figlioletto: “camminava lungo la banchina del porticciolo elevando un urlo straziante come di bestia gravemente ferita; alzava e abbas­sava ripetutamente la testa sul corpo inerme del suo piccino. Era come impazzita”. Rossani raccon­ta anche la terribile fine di alcuni zaratini che avevano cercato la sal­vezza in un rifugio improvvisato: “Mi avvidi che diverse persone cercavano di farsi udire urlando a gran voce attraverso le feritoie di un lungo rifugio in cemento arma­to, la cui entrata era stata colpita da una grossa bomba; ma nessu­no di quelli che si erano rifugiati nel tunnel era rimasto vivo. Ed anche in questo caso una vera strage di innocenti, dovuta al fatto che questo rifugio era stato co­struito in una località vicina a una fortificazione militare che gli in­glesi avevano individuato dall’al­to”. Così scrive Rossani nell’arti­colo pubblicato da “L’Osservatore Romano” del 18 luglio 1983: “Fui così in grado di assistere all’arrivo delle fortezze volanti americane e subito dopo ad una scena sconvol­gente: dalle strade, dalle banchi­ne, dalle case e dal mare che ba­gna Zara, si alzavano altissime co­lonne di fumo e di fuoco seguite da tremendi boati. La povera città era colpita a morte: sullo sfondo del cielo si veniva stagliando un pauroso scenario di fiamme. Un quadro apocalittico allucinante, di fronte al quale ebbi netta la sensa­zione che le nostre vite erano at­taccate ad un filo e che il nostro destino si presentava terribile. Ho potuto assistere alla lenta ed atro­ce agonia dell’antica e gloriosa città dalmata (Zara) che diventò una sorta di bersaglio dell’aviazio­ne inglese e americana. Nel corso di poche settimane Zara subì un tragico destino: il suo porto, le sue banchine di marmo bianco, le sue strade, le sue piazze di struttura veneziana, le sue bellissime chie­se romaniche e le sue colorite abi­tazioni furono spezzate, sgretolate, smozzicate e, per dirla con un fa­moso verso carducciano “pa-rean fai di scheletri in cimitero”. Vista la situazione drammatica che si era venuta a creare in città, Rossa­ni prende assieme a un’amica bo­lognese che aveva trovato lavoro come segretaria al “Giornale di Dalmazia”, la decisione di allonta­narsi dalla zona di guerra. Così i due trovano rifugio in una località vicina, Diclo, nella capanna di un contadino che li ospita in cambio di mobilio. Nel capitolo “La no­stra fuga”, Rossani de­scrive la fine dell’Elet­tra, il panfilo di Gu­glielmo Marconi. Mentre si trovava a pochi chilometri da Diclo, nota immobile nello specchio d’ac­qua una nave elegante di colore bianco, di cui al momento igno­rava l’identità. Mentre la stava os­servando, dal lontano orizzonte il giornalista scorge otto caccia bom­bardieri americani, che pochi se­condi dopo piombano in verticale sulla nave a rotazione mentre dei soldati tedeschi sparavano, inva­no, dalla tolda dell’unità navale con le loro mitraglie contro i cac­cia. “In brevissimi istanti – scrive Rossani – mentre io mi ero ripara­to dietro a una masiera e guarda­vo terrorizzato, ma anche incurio­sito, come sarebbe andata a finire – gli otto caccia centrarono la bel­la nave riducendola a uno schele­tro dentro un mare di fiamme. Nessuno era intorno a me, neppu­re le sentinelle tedesche che, come si è detto, si erano allontanate; e mentre stavo guardando la fine di quella nave misteriosa non sa­pevo – come appresi più tardi -che si trattava nientemeno dell’E­lettra, la nave celebre su cui Mar­coni nel marzo 1930, con un im­pulso radiotelegrafico, aveva acce­so le luci del municipio di Sidney e sulla quale egli aveva fatto, nel corso della sa vita, tanti altri espe­rimenti importanti. Ora penso di essere stato l’unico italiano che, in quel tragico frangente, fu in grado di vedere, non veduto, l’agonia dell’Elettra, la cui carcassa sareb­be rimasta nel mare di Diclo per circa un decennio e solo nel 1956 sarebbe stata recuperata per riat­tarla come monumento storico e documentato delle prove geniali di Marconi”. Rossani viene a sape­re che a Zara c’era un sacerdote coraggioso che conoscendo per­fettamente la lingua tedesca, si era messo in contatto con il comando locale per ottenere che almeno le donne e i bambini potessero veni­re messi in salvo imbarcandosi su una nave della Croce Rossa. Ros­sani e l’amica riusciranno a im­barcarsi su quella nave, che verrà poi a sapere utilizzata dai tede­schi, in spregio alle convenzioni internazionali, per il trasporto di armi, e a raggiungere Pola. Dal ca­poluogo della provincia dell’Istria il giornalista prosegue in treno fi­no a Venezia dove si era trasferito il Minculpop (il Ministero della Cultura popolare); si trattiene nella città lagunare diversi giorni, fi­no a quando ottiene la liquidazio­ne per il servizio prestato al “Giornale di Dalmazia”. Poi attra­verso un viaggio avventuroso in auto, aveva ottenuto un passaggio da una misteriosa signora che si spostava con il figlio grazie a un lasciapassare che faceva scattare i tedeschi sull’attenti, riesce a rag­giungere Bologna, dove ritrova i genitori. Rossani è anche testimo­ne della liberazione di Bologna e di quando la folla festante si ac­corge, con senso di orrore e sgo­mento, che ai piedi del palazzo comuna­le, dove è stata poi collocata la lapide de­dicata ai caduti parti­giani, giacevano i ca­daveri martoriati di alcuni caduti per la li­bertà. Attraverso In­ternet è possibile rin­tracciare    diverse opere di Rossani po­ste in vendita da qualificate libre­rie antiquarie. Tra i titoli “Il cine­ma e le sue forme espressive. Ap­punti di critica estetica” pubblica­to nel 1940 a Fiume e stampato dalla tipografia della “Vedetta d’I­talia”, il giornale del capoluogo del Carnaro. Diverse opere sono conservate presso importanti bi­blioteche.

Un rigraziamento al giornalista Paolo Barnard, figlio di Rossani, per aver fornito “Zara brucia” da tempo esaurito.

(courtesy MLH)

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