di Krstjan Knez su la Voce del Popolo del 4 giugno 2011
Il trecentesimo anniversario della nascita di Ruggiero Giuseppe Boscovich anziché rappresentare un’occasione per evidenziare la statura dello scienziato raguseo, che viaggiava per l’Europa e annoverava rapporti con i più importanti ambienti illuminati del suo tempo (come è attestato, tra l’altro, dalla sua vastissima corrispondenza), ha focalizzato soprattutto l’interesse relativo alla questione della sua presunta nazionalità. È un argomento che non riveste alcuna rilevanza, perché non incide per niente sulla figura e sull’opera dell’illustre dalmata. Ma, evidentemente, non tutti sono dello stesso avviso. In Croazia, ad esempio, sembra essere di gran lunga più importante anteporre la sua appartenenza (nazionale, a patto, ovviamente, esista) al suo percorso formativo e di studio. E non deve stupire se il tentativo di “incasellare” entro la nazione croata tutti gli artefici, che dettero qualsivoglia contributo nei più disparati settori dello scibile umano, sia ormai una prassi consolidata.
Dai primi vagiti risalenti all’epoca del risorgimento nazionale, nel XIX secolo, alla stagione delle ideologie e dei totalitarismi sino all’indipendenza e alla democratizzazione del Paese, l’operazione tesa a trasformare in croati “sic et simpliciter” tutti coloro che operarono sul suolo di quella che oggi è la Croazia, ha investito buona parte dei personaggi illustri, specie di quelli dell’Adriatico orientale, nati oppure solo approdati su quei lidi.
A fine Ottocento in certi ambienti si dibatteva addirittura dell’origine croata di Giuseppe Tartini (proprio così). Ma non deve stupire più di tanto; nell’ultimo quarto di quel secolo Ladislav Mrazovic, viaggiatore, pubblicista, nonché critico letterario e teatrale, che aveva visitato la città lagunare, credeva che i Veneziani fossero dei “Croati romanizzati”.
Francesco Patrizio di Cherso viene tuttora spacciato per Frane Petric definito anche Franjo Petris, come si legge su un volume edito una decina d’anni fa a Zagabria. Giovanni Lucio di Traù, autore della “Storia del Regno di Croazia e Dalmazia” (edita in latino nel 1666 e tradotta in italiano nel 1896), ribattezzato d’ufficio in Ivan Lucie, viene tranquillamente accolto come il “padre della storiografia croata”, e non da oggi, lo storico Franjo Racki, difatti, gli dette quella definizione già nel 1879.
Giulio Bajamonti di Spalato, divenuto nel frattempo Julije, è presentato come un importante enciclopedista croato. Sovente si leggono non pochi spropositi anche sul conto di Niccolò Tommaseo. Questi sono alcuni esempi dello scempio culturale che viene attuato alla luce del sole e senza alcuna remora. Artisti, letterati, filosofi, architetti, storici, scienziati, militari, marittimi, ecc., delle sponde dell’Adria sono sempre presentati come croati, alterando i loro nomi e cognomi – argomentando sarebbero stati manipolati e alterati, non si sa bene da chi – e di conseguenza si ha l’impressione che a quelle latitudini non esistessero altre componenti nonché la sensazione che la lingua e la cultura italiane siano state innestate in un contesto che non le appartenesse.
Certi luoghi comuni sembrano fare ancora presa e la presenza della Serenissima viene colta per lo più in termini negativi. La Repubblica di San Marco, da noi come in tutti i suoi possedimenti, compresi quelli della Terraferma, ha curato principalmente i propri interessi – è un dato di fatto – sovente controllando severamente i settori di maggiore rilievo.
Non ha però “italianizzato” o imposto con la forza la lingua italiana. Siffatto aspetto fu sottolineato anche da Sime Ljubic, in un periodo di accesi contrasti nazionali che avevano interessato la Dalmazia, quindi in tempi non sospetti, ricordando che nei territori marciani la lingua croata non era stata affatto ostacolata. Anzi, la letteratura croata si era sviluppata proprio in quel possedimento. Su tali questioni non si può fare altro che rimandare ai tanti studi dello zaratino Arturo Cronia, insigne slavista e docente all’ateneo di Padova. Venezia era uno Stato di antico regime e come tale dev’essere considerato. Non avrebbe senso cercare in esso contenuti che non poteva sviluppare. La Dominante nell’Adriatico orientale non si può quindi paragonare all’operato dell’Inghilterra in India.
Ricordiamo queste cose perché in sede storiografica è auspicabile si colga, finalmente, il passato adriatico non più come espressione di esclusivismi nazionali in cui non vi è spazio per la dimensione plurale di quello spazio geografico, bensì come zona di contatto, di interazione, di reciproca influenza. In quest’ottica, la sola in grado di cogliere la complessità, le sfaccettature, i problemi e le contraddizioni di questa parte d’Europa, dobbiamo essere anche in grado di distinguere ed evitare di gettare tutto e tutti in un calderone. E invece siamo testimoni di una continua appropriazione, indebita, che poggia sulla fantasia, sulle argomentazioni stereotipate e pertanto ha bisogno della contraffazione.
Ma è mai possibile che ogni volta si affronti il passato di questi territori si debba sfociare nella polemica? Ha senso? Si potrebbe anche lasciar perdere, però sappiamo, fin troppo bene, che le menzogne, se ripetute, alla fine passano per verità, o, per dirla con un proverbio partenopeo, a forza d’insistere si piega anche il metallo. Se accettassimo quanto viene propinato, senza distinguere il grano dal loglio, adagiandoci al pressappochismo, daremmo solo man forte a coloro che tuttora considerano la presenza italiana di queste contrade come il risultato di un “passaggio”. E doveroso perciò contraddire tale vulgata – benché sia come combattere contro i mulini a vento – e diffondere, uscendo dalle sedi riservate quasi esclusivamente agli addetti ai lavori, che quella componente è qui di casa, è abbarbicata a questo suolo a prescindere dall’amministrazione dello Stato veneziano o del Regno d’Italia. Che le comunità romanze (poi italiane) non siano le uniche su questo territorio è un dato di fatto e non rappresenta certo un problema. Anzi, costituisce un tassello di quella vasta area geografica, composita e plurale, che si estende(va) dall’Adriatico al Mar Nero e dal Baltico al Mar Egeo, che i due conflitti mondiali, i nuovi confini disegnati, i massacri, le espulsioni e le pressioni di ogni genere contribuirono ad alterare irreversibilmente.
Nell’intervista di Gianfranco Miksa fatta al prof. Zarko Dadic e pubblicata dal nostro giornale, abbiamo letto che, “(…) le figure del passato, originarie dalla Croazia odierna, sono da ritenersi croate”. Ma che ragionamento sarebbe questo? Gli stati, come è noto, si formano e scompaiono, i loro confini si dilatano o arretrano. Di conseguenza anche le identità mutano cioè non sono sempre le medesime, specie se vi sono state delle cesure profonde. Se quanto sopra riportato corrispondesse al vero, oggi, allora, dovremmo scrivere che Immanuel Kant è un filosofo “russo” (!), perché la sua Konigsberg, dopo il cataclisma del secondo conflitto mondiale e l’occupazione sovietica, è divenuta Kaliningrad, oggi appartenente alla Federazione Russa. Sempre secondo quella argomentazione dovremmo parlare del “francese” Giuseppe Garibaldi, poiché Nizza,la città natale dell’Eroe dei due mondi, nel 1860 fu ceduta a Napoleone III. E tutti gli esponenti di quella raffinata cultura araba sviluppatasi nella penisola iberica che per secoli dette alla luce importanti personalità, dovremmo forse definirli “spagnoli”? E la millenaria presenza greca sulle coste dell’Asia minore, che tanto ha dato all’intera civiltà? Abbracciando quel pensiero dovremmo cancellare tutto con un colpo di spugna e quanti vissero ed operarono su quei lidi saremmo obbligati a considerarli semplicemente “turchi”. Naturalmente sono delle aberrazioni che nessuno accoglierebbe. E allora perché dalle nostre parti sembra passare, senza grosse difficoltà, ogni più stravagante ipotesi?
Come è possibile, perciò, che lungo l’Adriatico orientale, zona plurale e area di incontro tra il mondo romanzo e quello slavo, lo ripetiamo perché è un concetto non troppo evidente, tutti gli apporti provengano sempre e solo da parte croata? E tutto il patrimonio civile e culturale lasciatoci dalla componente neolatina, dov’è? non sarà mica svanita come una bolla di sapone? O si vuol far credere che l’apporto italiano sia pressoché inesistente? aleatorio? e quindi tutta la storia di quell’area geografica, che crediamo di conoscere, sia un’invenzione intellettuale o ideologica? Quella componente che è (era) presente oltremare non è riconducibile a una colonizzazione, ad un travaso mirato teso ad alterare non si sa quali equilibri etnici. La Serenissima non accolse forse intere comunità morlacche in fuga dai territori ottomani, ospitandoli nei settori dalmati strappati alla Sublime Porta? e in Istria, grazie alla sua opera di colonizzazione di intere aree disabitate a causa delle guerre e dei flagelli delle malattie contagiose, non giunse un elevato numero di genti slave?
Anche in questi casi nessuno aveva intenzione di stravolgere la struttura etnica delle aree interessate. Certo funzionari, amministratori, militari e quant’altri si stabilirono anche sulle sponde orientali dell’Adria, è un aspetto questo che si verifica durante qualsiasi dominazione, però vi è un elemento che sfugge. Non si considera che in quelle terre potesse esistere anche una componente italiana (chiamiamola così per comodo ma è un termine improprio almeno fino allo sviluppo della coscienza nazionale, che risale alla metà dell’Ottocento), che ha contribuito a scrivere la storia di quelle contrade e ha espresso personaggi di rilievo. E invece no. Partendo dall’assioma che tutto e tutti sono croati e nel tentativo goffo di avanzare una sorta di “ius primi occupantis”, si ignora volutamente la ricchezza di un’area eterogenea per definizione che può essere colta in tutta la sua essenza solo evitando le semplificazioni e le definizioni di comodo.
Abbiamo letto che Boscovich, per ritornare al personaggio oggetto delle discussioni degli ultimi mesi, “in base alla sua origine nazionale” sarebbe “un croato” e “come tutti i ragusei del suo tempo sono considerati oggi croati”. Questa è una valutazione molto opinabile. Parlare di appartenenza nazionale prima ancora della comparsa delle identità nazionali per l’appunto è una forzatura e come tale non può essere accolta. E poi come potremmo accettare l’argomentazione che tutti sarebbero in fondo croati se sappiamo benissimo che ciò non corrisponde alla verità. Per secoli l’identità, che sovente rimaneva circoscritta al campanile o a un territorio limitato, era una questione puramente linguistica, culturale, spirituale e nulla più. Allora perché bisogna andare sempre alla ricerca di origini o appartenenze nazionali presso personaggi che mai le avevano manifestate perché inesistenti.
E stato evidenziato che la repubblica indipendente di Ragusa – il cui territorio oggi appartiene alla repubblica croata – sarebbe un fatto irrilevante in quanto anche l’Italia prima della sua unità era formata da un mosaico di realtà differenti. E vero, però, a differenza dello stivale in cui la popolazione aveva caratteristiche più o meno comuni, con dialetti molto differenti ma con una lingua che almeno negli ambienti più alti era compresa da tutti, lungo le sponde dell’Adriatico orientale riscontriamo una situazione molto diversa: convivevano e si intrecciavano popolazioni, lingue, usi e costumi e addirittura fedi religiose diversi e di conseguenza le specificità testimoniano l’esistenza di un mondo peculiare. La repubblica di San Biagio fu una realtà distinta, la quale, per usare le parole dello storico zara-tino Giuseppe Praga, elaborò ed espresse una “particolare civiltà italo-slava”.
Nemmeno il cognome può diventare il metro per definire le possibili appartenenze. La storia ci insegna che nei contesti plurali le eccezioni sono fin troppo fitte e ogni individuo viene forgiato dall’ambiente in cui nasce e/o si trova ad operare. Fa ancora paura riconoscere che le aree urbane della costa erano italiane (che non c’entra nulla con l’Italia) e di conseguenza si tende a glissare su tale dato di fatto confezionando storielle che possano apparire credibili. La Dalmazia, anche in tempi più vicini a noi, era a tutti gli effetti una regione ibrida e bilingue. Antonio Bajamonti, fiero sostenitore dell’autonomia, dell’impronta italiana ma anche patrocinatore del risorgimento civile della componente slava, rispettato dagli stessi avversari politici, che pubblicava “L’Avvenire”, le cui colonne erano spesso redatte nelle due lingue, nel 1886 pronunciò che l’elemento italiano della sua terra era “indigeno come lo slavo”. Lo storico analizza i fatti e formula le sue considerazioni in base alle testimonianze pervenutegli. A meno che non si voglia inserire anche il “Mirabile podestà di Spalato” nel pantheon degli illustri croati è doveroso abbandonare l’interpretazione a senso unico che misconosce “l’altro” riducendolo a una sorta di “usurpatore”.
Pavao Ritter (1652-1713), erudito, letterato, storico, editore, il quale aggiunse al suo cognome la forma croata cioè Vitezovic, nacque a Segna da padre le cui origini erano alsaziane – era ufficiale in quel tratto del confine militare asburgico – e da madre croata, è considerato croato perché tale si riteneva. A nessuno passa per la mente di definirlo “tedesco”. Evidentemente l’identità, non imposta ma intesa come il risultato di una libera scelta personale, in certi casi viene attribuita arbitrariamente. Ci sono quindi due pesi e due misure. In questo modo però si scende nel ridicolo. Per fare un esempio ricordiamo la figura di Francesco Vidulich di Lussinpiccolo, presidente della Dieta provinciale dell’Istria, assertore della causa italiana e politico battagliero della seconda metà del XIX secolo, che lo storico Petar Strcic insinua si firmasse in “origine” come “Franjo Vidulic”, ovviamente senza citare uno straccio di fonte. Il medesimo deve però ammettere che la sua appartenenza nazionale era dovuta alla componente italiana della sua famiglia (la madre era Elisabetta Capponi), cosa che tra le righe viene colta come un oltraggio.
Dato che la componente italiana dell’Adriatico orientale non è un’astrazione e poiché siamo consapevoli dell’apporto dato allo sviluppo dell’intera area – che non deve rappresentare un pretesto per decantare presunti primati dal sapore anacronistico – non possiamo fare altro che ripudiare il diuturno furto della storia e della cultura delle nostre contrade – che non è esclusiva, lo ripetiamo, però non è considerata nella giusta maniera – i cui contorni originali vengono manipolati per poter sostenere una tesi priva di alcun fondamento che rischia di rovesciarsi al primo giro d’aria.
(courtesy MLH)