Con la scomparsa del sen. Paolo Barbi, avvenuta venerdì 10 giugno a Napoli, l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che lo ebbe presidente per tre decenni perde uno dei suoi rappresentanti più significativi, sia per la sua statura politica e culturale sia per il suo ruolo di guida del maggiore sodalizio rappresentativo in Italia degli Esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia in un frangente storico complesso e segnato, tra l’altro, dalla firma del trattato di Osimo nel 1975.
Era nato a Trieste nel 1919 da genitori dalmati, originari dell’isola di Lesina. L’impronta dalmata, riconoscibile nel carattere forte e schietto dell’uomo, avrebbe maturato in lui la sensibilità e l’attenzione per la questione del confine orientale investito dalla tragedia della guerra e dell’occupazione jugoslava e delle comunità italiane di quei territori, costrette all’esodo dalle violenze del regime comunista di Tito e rinate in Italia nelle diverse città di insediamento dopo lunghe permanenze nei campi profughi o in ricoveri di fortuna in condizioni di estremo disagio e marginalità.
Docente di Storia e Filosofia nella Scuola militare della Nunziatella, Barbi intraprese nel 1958 una fortunata e meritata carriera politica nelle fila della Democrazia Cristiana, del quale fu deputato per ben quattro legislature e senatore dal 1976 al 1979, rivestendo anche la carica di Sottosegretario di Stato nei Governi Leone (1968), Rumor (1969-1970) e nel quarto Governo Andreotti e membro di molte Commissioni, sia alla Camera che al Senato. Alle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo (1979), venne eletto ed aderì al gruppo parlamentare del Partito Popolare Europeo, del quale fu capogruppo negli ultimi due anni di quella legislatura e membro delle Commissioni per il Bilancio e Politica.
Nel 1975 si trovò a dover affrontare, da dalmata e da dirigente dell’Associazione, la controversa vicenda del trattato di Osimo, preparato in tutta segretezza e firmato per l’Italia dal presidente del Consiglio Mariano Rumor, che sanciva la definitiva cessione della Zona B dell’ex Territorio libero di Trieste, ovvero dell’Istria nord-occidentale, alla Jugoslavia. Il primo trattato internazionale, riportano le cronache, non curato dal Ministero degli Affari Esteri ma i cui negoziati erano stati affidati ad un dirigente del Ministero dell’Industria. Nell’acceso dibattito parlamentare che si sviluppò, a fronte anche di una considerevole sollevazione dell’opinione pubblica e particolarmente delle comunità esuli in Italia, Barbi presentò interpellanze, pronunciò un fermo intervento critico ed espresse, all’opposto di tutto il suo partito e di PSI, PCI, PSDI e PRI, voto contrario.
Cattolico democratico, fu europeista convinto ed il primo a guardare alla questione degli Esuli giuliani e dalmati in una cornice europea. In uno dei suoi ultimi articoli, apparso nel marzo 2011 su “Difesa Adriatica”, il mensile dell’ANVGD, Barbi scriveva tra l’altro: «Dunque il ricordo dell’esodo giuliano-dalmata, oggi dopo sessant’anni, deve servire a tutti – non solo a noi italiani – per capire quanti e quali disastri umani hanno prodotto la dottrina e la prassi del nazionalismo sciovinista e della “conflittualità naturale” degli individui e dei popoli. E anche per prender coscienza dell’inestimabile valore della costruzione unitaria europea, fondata invece sulla naturale socialità e sulla solidarietà delle persone, sulla sussidiarietà e sulla cooperazione delle loro organizzazioni politiche.
Quindi il Giorno del Ricordo non può esser considerato solo come una sorta di consolazione per gli Esuli […] o magari anche un modo per riparare l’umiliante, insopportabile, lungo oblio dei loro così gravi sacrifici, affrontati consapevolmente per continuare ad essere liberi e parte integrante della nazione italiana. Deve essere, invece, soprattutto l’occasione per far conoscere bene tutto ciò anche alle nuove generazioni – che non hanno avuto la triste sorte di vivere quelle guerre, quei massacri, quelle deportazioni di intere popolazioni dalle loro terre di origine – e per educarle al federalismo europeo». La sua visione politica travalicava la dimensione nazionale in favore di una proiezione continentale nella quale le ingiustizie e le sofferenze delle popolazioni colpite dai lutti del conflitto e dell’intolleranza ideologica ed etnica dei totalitarismi del Novecento avrebbero trovato il giusto riconoscimento ed un pur tardivo, ma indispensabile, lenimento. E difatti proprio la caduta del Muro di Berlino e il disfacimento del vecchio assetto geo-politico derivato dagli accordi di Yalta e dalla Guerra Fredda avrebbero finalmente permesso alla pubblica opinione e ai governi di riconoscere, finalmente, la realtà delle persecuzioni ai danni della popolazione italiana autoctona nei territori ceduti all’ex Jugoslavia, così come quanto aberranti fossero i sistemi coercitivi dei regimi di quel che si chiamava il Blocco sovietico.
Nei suoi ultimi anni, e benché provato da precarie condizioni di salute, continuò a seguire puntualmente i lavori della sua Associazione e l’evoluzione della più generale situazione politica italiana. Nel 2003 diresse con energia, a Roma, il XVIII Congresso nazionale dell’ANVGD, portando il suo contributo di esperienza e di conoscenze al dibattito interno; dall’istituzione del Giorno del Ricordo, nel 2004, curò annualmente le relazioni con le amministrazioni pubbliche della sua città di residenza, Napoli, per l’organizzazione di adeguate celebrazioni istituzionali, alle quali partecipò sin quando gli fu possibile. Nel 2007, al Quirinale, pronunciò il discorso ufficiale nella solenne commemorazione alla presenza del Presidente Napolitano.
«Quello delle Foibe – disse tra l’altro in quella circostanza – è stato un fatto drammatico, inumano, terrificante e perciò fortemente impressionante. […] Fu l’esplosione delle vendette e degli odi covati nell’esasperazione nazionalistica durata decenni e nel clima della guerra totale, impietosa, dei regimi totalitari. Si manifestò già dopo l’8 settembre ‘43 e poi alla fine della guerra nel maggio-giugno ‘45. Creava terrore: e proprio perciò fu cinicamente incoraggiato e utilizzato dal nuovo potere jugoslavo come brutale, passionale strumento per attuare un progetto razionalmente concepito e freddamente realizzato: la radicale pulizia etnica – questa pessima degenerazione novecentesca del nazionalismo romantico dell’800 – dell’Istria e della Dalmazia».
Ed ancora, di fronte alle più alte cariche dello Stato: «Nel ’46 non si infoibava più: ma si utilizzava la fuga terrorizzata di gran parte della popolazione italiana per sostenere alla Conferenza di Versailles le pretese annessionistiche slave, che furono sancite nel Trattato di pace imposto all’Italia sconfitta, semidistrutta, umiliata, il 10 febbraio ’47. Questo è il fatto più grave, di portata storica, che non riguardò solo alcune migliaia di vittime delle foibe, ma determinò l’esodo di un intero popolo». «Le esigenze della politica italiana nel quadro della situazione internazionale creata dalla “guerra fredda” e dalla “eresia” titina determinarono un atteggiamento generale di rimozione della questione adriatica […] per cui anche i partiti e gli uomini che più avevano detto e fatto per la causa istriana furono indotti a considerare con fastidio le nostre valutazioni e le nostre richieste, fino al punto di imporci con procedure subdole l’affronto dell’inutile trattato di Osimo nel ’75.
Non era più l’ostilità aperta della fazione comunista degli anni ’40. Era, per noi, qualcosa di peggio: la freddezza, l’indifferenza, la scomparsa della solidarietà in tutta la comunità nazionale. L’Italia libera e democratica per cui avevamo sacrificato tutto sembrava volerci ignorare, cancellarci. Persino – fatto di incredibile gravità! – negli studi storici, nell’insegnamento universitario, nei testi scolastici eravamo quasi totalmente ignorati. E vana fu, in tutti quegli anni, la nostra denuncia di quella vergogna della cultura italiana. Erano sordi che non volevano sentire».
Ciò nonostante, e ormai palesatasi la fine del lunghissimo dopoguerra, proseguiva: «La nostra identità è costituita, certamente, dalla cultura, dalla lingua, dalla religione, dalle tradizioni popolari; ma anche – ed in modo del tutto particolare – dalla secolare esperienza civica, sociale e politica che ha prodotto forme storicamente collaudate di pluralismo linguistico, di integrazione sociale, di fede e ad un tempo di tolleranza religiosa, di sviluppo economico, di convivenza pacifica. Un’identità, questa, che l’esasperato nazionalismo sciovinistico otto-novecentesco ha cercato di deformare, amputandone, la parte socio-politica e usando i valori culturali e linguistici come strumento della sua teoria conflittualistica e della sua rovinosa – e per noi giuliano-dalmati fatale – prassi bellicista».
Sempre vigile e partecipe del dibattito politico e giornalistico, non più tardi del 10 Febbraio di quest’anno Barbi protestò pubblicamente e con al sua consueta energia per il basso profilo delle cerimonie tenutesi nella sua Regione, e rimarcando la finalità non soltanto «politica», nel senso più alto del termine, ma finanche «educativa» del Giorno del Ricordo, perché utile alle nuove generazioni per comprendere la storia e quanto possano essere tragiche le sue dinamiche.
Di Paolo Barbi restano molte eredità, come si conviene ad una personalità di alto profilo intellettuale ed umano: non ultima, e coerente con le sue origini e con la sua educazione, l’onestà personale – qualità rara sul mercato contemporaneo – e la passione per la memoria delle vicende della Venezia Giulia e della sua Dalmazia, coltivata veramente sino all’ultimo e con la lucidità propria dei grandi testimoni.
Patrizia C. Hansen
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