Secondo quanto si apprende dalle fonti di stampa, i Benedettini dell’Abbazia di Praglia sarebbero tornati in possesso del monastero di Daila e di parte degli estesi terreni pertinenti (180 ettari circa, mentre i restanti 190 non sono più disponibili in quanto la Diocesi di Pola-Parenzo li ha venduti a suo tempo). I beni reclamati dall’Ordine sarebbero stati già intestati alla società «Abbazia d.o.o.» con sede a Pola, interamente controllata dai Benedettini italiani. Pare giunga così a termine il duro confronto tra Santa Sede e la Diocesi istriana oggi croata, chiuso dalla commissione cardinalizia nominata dal Pontefice che aveva deliberato, nel luglio scorso, di procedere alla restituzione, o, in alternativa, ad un cospicuo risarcimento: deliberazione che il vescovo Ivan Milovan si era rifiutato di firmare, costringendo il Vaticano a nominare, secondo diritto canonico, un supplente per la durata di un minuto, tempo minimo per apporre la firma.
La Diocesi, si apprende, ha assunto ora l’impegno di corrispondere ai Benedettini 4 milioni di euro a titolo di risarcimento (spese procedurali, giudiziarie e interessi di mora), ma, non disponendo della cifra e tantomeno di quella totale ipotizzata, 25 milioni circa, per la Diocesi si prospetta il pignoramento dei beni. Un default senza precedenti, a conclusione di una vicenda che in Croazia aveva causato un autentico terremoto politico e diplomatico. Per il governo di Zagabria, il premier signora Jadranka Kosor aveva annunciato di aver scritto una lettera al segretario di Stato card. Tarcisio Bertone e di accingersi ad inviarne un’altra al Pontefice, ma, stando alla stampa croata, tali annunci non hanno avuto in realtà alcun seguito.
Bisogna anche ricordare che nei giorni scorsi, il clero istriano, riunitosi a Pisino, aveva unanimemente espresso appoggio al proprio vescovo, mons. Milovan, ponendosi così apertamente in aperto dissenso con Roma. Per tentare di evitare di dover restituire i beni ai Benedettini italiani, era loro balenata l’idea di conferirli allo Stato croato, subentrato alla Jugoslavia di Tito nel possesso del bene espropriato dal regime comunista, e che – essendo presidente Tudjman – li aveva “donati” alla Diocesi parentina. Con non celata stizza il cancelliere diocesano, Ivan Jakovljevic, appena il 4 agosto aveva dichiarato: «Speriamo ora che non verrà di nuovo istituita qualche commissione cardinalizia per prendere decisioni sulla nostra diocesi, perché la proprietà non sarà più della Chiesa, non vogliamo ulteriori discussioni», aggiungendo con sorprendente disinvoltura «lo Stato croato ne ha diritto, e anche se non ne ha, noi comunque gli ridaremo l’immobile». Non è inverosimile immaginare che il governo di Zagabria, appresa l’intenzione della Diocesi, e consapevole del conseguente rischio di trovarsi esso stesso nella condizione debitoria, abbia preso le dovute e immediate distanze da un contenzioso che a quel punto conveniva considerare veramente inter-ecclesiale.
Nel frattempo, i media croati avrebbero scoperto che gli immobili, il complesso abbaziale e gli estesi terreni affacciati sul mare, risultavano al locale catasto intestati alla società «Benedikt» di proprietà della Diocesi, della parrocchia e di un istituto finanziario ecclesiastico con sede
in Austria. La società, per di più, vi è registrata per «attività turistiche e alberghiere», benché non risulti abbia fatturato alcunché nel 2010.
Ora, da parte della Diocesi tutto tace. Almeno in questo obbedisce, avendo il Nunzio apostolico a Zagabria, mons. Mario Roberto Casari, imposto a clero e vescovi croati la massima riservatezza, ovvero il silenzio stampa, e il dovere di rispettare le deliberazioni della Santa Sede.
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