Pola addio. L’esodo italiano 65 anni fa
Una manifestazione sotto l’Arena illuminata a giorno e il canto del “Va pensiero” furono il saluto dei profughi alla città
di Mauro Manzin
TRIESTE Pola addio, sessantacinque anni fa, un Ferragosto di lacrime, ma anche di dignità di un popolo pronto a continuare la propria vita nell’identità violata da un liberatore-occupatore violento, che nel nome dell’ideologia comunista aveva gettato la dignità dell’uomo nelle profondità delle foibe. Dall’Arena illuminata a giorno, quella sera il “Va pensiero”
intonato dalle migliaia di coloro che di lì a poco sarebbero diventati esuli risuonò come l’inno dei vinti che si ribellano ancora a chi vuole sottomettere anche le radici sociali e culturali (altro che uso demagogico del coro verdiano di stampo leghista). È l’inizio dell’esodo. Verso la madrepatria. «La gente arrotola i materassi – scrisse padre Flaminio Rocchi uno dei tanti preti che non abbandonò il proprio popolo – schioda i quadri, i lampadari, le porte e gli infissi delle finestre. Nelle case i colpi di martello battono sui cassoni come su bare…». I pochi che rimangono nella Jugoslavia comunista lo fanno per scelta ideologica (pochi invero) più spesso per necessità, a causa di un genitore troppo anziano da condurre via ma anche da lasciare solo, o per non perdere i risparmi di una vita intera, oppure, come fece il vecchio zio Giacomo, per tutti Etto, anziano pescatore scolpito dalle rughe e dalla salsedine che rimase perché lui voleva morire dove era nato, «in malora i s’ciavi, mi resto perché son povero pescador e anche lori ga bisogno de pese». Gli istriani si dividono così in due anime, gli esuli e i rimasti mentre gli jugoslavi irrompono a Pola, si appropriano delle stanze ancora calde di vita e in poche ore cambiano il volto etnico della città dell’Arena. La vita è durissima. Per gli esuli così come per i rimasti. Tacciati di fascismo i primi e di comunismo i secondi. Ma la beffa della storia non finisce qui. Il treno carico di profughi dall’Istria che si ferma alla stazione di Bologna viene sommerso da un mare di insulti, mentre volano schiaffi e sputi, gridati dai comunisti emiliani contro chi, a loro detta, aveva abbandonato la “terra promessa” del socialismo reale. Per informazioni chiedere comunque a quel gruppo di operai monfalconesi che emigrarono nella “terra promessa” jugoslava e si ritrovarono a Goli Otok il lager titino in Quarnero. Ma chi resta è guardato con sospetto e considerato quasi la quinta colonna dell’irredentismo italiano populisticamente riassunto nel motto «ritorneremo». L’esodo culminerà nel gennaio del 1947 sulla motonave “Toscana” carica fino all’inverosimile di profughi e delle loro masserizie, quei saluti strazianti con chi sul molo ci rimane mentre gli ormeggi si staccano dalle bitte. È il crack della storia, la frattura, una sorta di scisma laico di una cultura, la istro-veneta che non smetterà mai di connotare chiese, case e pietre della penisola che si incunea tra Adriatico e Quarnero. Inizia l’odissea, molti giungono in Italia, a Trieste chi non vuole svellere le proprie radici, altri vanno in America o in Australia. Chi resta a Trieste va a vivere nelle baracche dei campi profughi e in molti ci rimarranno fino ad anni Sessanta inoltrati. Tollerati ma non proprio amati dalla gente che molte volte nei concorsi pubblici o nelle assunzioni si vede superata nel punteggio perché non profuga o figlia di profughi. Un’integrazione lunga e difficile dunque, infarcita da tante promesse da chi vedeva nel mare degli esuli un ottimo bacino dove pescare voti. E poi il Trattato di Osimo (1975) e gli Accordi di Roma (1981), sparisce la zona A e la zona B, l’ultimo effetto geopolitico della Seconda guerra mondiale. E per gli esuli un’altra beffa, il loro sacrificio ripagato con poche “noccioline” peraltro mai distribuite. Infine arriva l’Europa, la Jugoslavia che fu di Tito esala il suo ultimo, anche questo cruento, respiro. Nascono Slovenia e Croazia ma nessuno ripudia Osimo, vince il concetto del “pacta sunt servanda”. E i beni svincolati dall’ipoteca ideologica della collettivizzazione non ritornano ai loro antichi proprietari. A chi ha lasciato tutto dietro di sè resta oggi una sola
consolazione: finalmente anche la loro storia relegata nei cassetti della dimenticanza da fieri docenti dell’ideologia ora è diventata storia patria.
Un’attesa durata 65 anni.
(courtesy MLH)