I titini nella primavera del 1945 non si limitarono a depredare e nei casi peggiori a infoibare possidenti, nobili, nobili e rappresentanti dello Stato italiano, ma in alcuni casi si misero addirittura alle loro calcagna inseguendoli nella fuga e facendoli imprigionare. E in questo ruolo non agirono solo sloveni o croati, ma anche italiani votatisi alla causa comunista alcuni per ideologia, altri per opportunismo nella speranza di arricchirsi a loro scapito. È il caso che vede nella parte delle vittime alcuni italiani di Cherso che fuggiti dallo loro isola si rifugiarono a Trieste e durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava si ritrovavano nell’officina per motori marittimi Godina di via Lazzaretto Vecchio.
Un loro concittadino, Mario Padovan, secondo il racconto che ne fa un’altra chersina, Gianna Duda Marinelli, aveva a propria volta raggiunto Trieste, ma per smascherare i fuggitivi. Scoperto il luogo triestino di incontro lo segnalò all’Ozna, la terribile polizia segreta jugoslava. Così finì al Coroneo Giuseppe Baici, che al momento dell’occupazione di Cherso si trovava a Fiume con la famiglia e che poi era riuscito a raggiungere Trieste. Alla fine vedrà salva la propria vita, ma contemporaneamente perderà a Cherso la propria casa, i propri averi, le aziende, i possedimenti, i terreni suoi e quelli di tutti i suoi parenti. In precedenza un fratello e una sorella, Giusto e Maria avevano sofferto sorte peggiore: prelevati dai partigiani, deportati a Veglia e uccisi. Anche la stirpe dei Baici fu così prima decimata e poi estirpata con la violenza dalla propria terra e fu posta fine a una storia plurisecolare di lungimiranza e potenza industriali.
I Baici erano infatti produttori agroalimentari, allevatori di bestiame, commercianti, albergatori, armatori. Sull’isolotto di Levrera allevavano agnelli, montoni e pecore, producevano carne, latte e formaggi, e commerciavano anche in lana con Lombardia e Veneto, avevano una riserva di caccia. Possedevano un macello e macellerie a Cherso e Lussinpiccolo, nel comune di Cherso una delle loro “stanzie”, quella di San Vito, si estendeva anche su 12 chilometri di spiaggia e comprendeva laghi artificiali. Le terre erano coltivate a oliveti, vigneti e frutteti, ma ampie erano anche le zone di bosco. Tra i possedimenti stalle, oleifici, porcili, tonnare. E poi casette campestri, abitazioni e la residenza principale, un palazzetto sulla piazza di Cherso, l’ex Palazzo pretorio, comprato nel 1927 e restaurato. Avevano anche la maggioranza della proprietà dell’albergo Fontego (oggi Hotel Cres) e una piccola flotta di commercio con i motovelieri Assiduo e Thalia, mentre l’Attinia era in fase di costruzione al cantiere Craglietto. Tutto venne confiscato.
I Baici continuarono la loro vita a Trieste,ma la loro vena imprenditoriale era stata definitivamente prosciugata. Fa impressione considerare che tanti triestini hanno eletto proprio Cherso a luogo ideale per le proprie vacanze.
(fonte www. quotidianamente.net 27 novembre 2011)