Sul “Correre della Sera” del 26 maggio, Sergio Romano risponde ai diversi commenti pervenutigli dopo il suo intervento su Dalmazia e Risorgimento apparso il 17 maggio scorso nella sua rubrica «Lettere al Corriere». Obiezioni sostanziali sono pervenute a Romano da Alvise Zorzi, Franco Luxardo, Renzo de’ Vidovich e da Lucio Toth nella veste di vicepresidente della FederEsuli: per la lettera di quest’ultimo il curatore della seguita rubrica rinvia al sito nazionale dell’ANVGD (si veda http://www.anvgd.it/notizie/13060-21mag12-toth-a-sergio-romano-rispetto-per-la-storia-della-dalmazia.html). Ora, lo stesso Toth replica a Sergio Romano con la missiva che pubblichiamo.
Il liberalismo democratico in Istria, a Trieste, a Fiume e in Dalmazia molto doveva alla diffusione delle idee mazziniane e molti dei nostri avi erano iscritti alla Carboneria e poi alla Giovane Italia, come gli stesssi Fratelli Bandiera, figli della contessa ragusea Anna Maria Marsich, e altri ufficiali della Imperial Regia Marina Austro-Veneta.
Nei moti risorgimentali del 1848-1859 e ancora nel progettato sbarco di Garibaldi in Dalmazia nel 1866 – se a Lissa avessimo vinto – le prospettive dei nostri stessi patrioti oscillavano tra un’annessione allo Stato unitario italiano, che si andava formando, e una rivendicazione di indipendenza dei popoli slavi in una federazione che ne salvaguardasse le peculiarità e il carattere plurale della regione dalmata. Tommaseo stesso auspicava quest’ultima soluzione.
Ma, come Lei sa, tutto cambiò con il mutamento dell politica austriaca verso gli austro-italiani e le pressioni soffocanti del partito nazionalista croato, che fece temere alla minoranza italiana della Dalmazia, allora egemone sul piano culturale ed economico, di perdere la propria identità.
Di qui le lotte autonomiste guidate da uomini di grande moderazione e respiro intellettuale, come Luigi Lapenna e Antonio Baiamonti. Anche Tommaseo divenne meno ben disposto verso i croati quando prese atto del loro estremismo anti-italiano nei comportamenti politici, fino agli atti di violenza che caratterizzavano le consultazioni elettorali dopo il 1866, portando alla perdita dei comuni dalmati da parte del partito italiano. Giustamente – si potrà dire – alla luce dei principi democratici, rappresentando gli italiani una minoranza privilegiata. Ma erano i metodi ad essere poco democratici, come l’assedio della flotta austriaca a Spalato nel 1882 in piena campagna elettorale. Ancora nel 1861 la Dieta Dalmata aveva respinto l’abbraccio oppressivo di Zagabria, mantenendo l’autonomia del regno dalmato e la diretta dipendenza da Vienna sino al termine della monarchia asburgica. Alla fine del secolo e fino al 1918 solo Zara, la capitale, riusciva a conservare il suo carattere italiano.
In quegli anni ebbe inizio il dissanguamento della popolazione italiana della Dalmazia (circa il 12% nel 1870) quando molte famiglie, da Arbe a Cattaro, per evitare le persecuzioni si trasferirono a Trieste, in Istria, a Venezia o in altre regioni della Penisola. I più dei volontari dalmati alle guerre del Risorgimento non fecero più ritorno nelle città natali.
Sulla figura di Baiamonti è stata pubblicata di recente un’opera documentata dello storico croato Duško Kečkemet, che Franco Luxardo e il Prof. Luciano Monzali hanno presentato giorni fa all’Università di Bari. Vi si legge tra l’altro a pag. 319 che nel 1882 a Spalato « i tre seggi elettorali registrarono un’affluenza complessiva di 2.050 votanti, di cui 1.118 votarono per gli autonomisti (italiani) e 932 per i nazionalisti (croati). Tuttavia il partito nazionalista, grazie al sistema elettorale per cui si votava per corpi, ottenne 28 consiglieri, mentre gli autonomisti ne ebbero solo otto. In questo modo gli autonomisti persero le elezioni nonostante avessero avuto la maggioranza dei voti espressi.»
A Spalato il tutto si concluderà nel settembre 1943 con l’eccidio di oltre 150 spalatini di lingua italiana e la fuga delle ultime centinaia di italiani della Dalmazia centrale, quelli che la pubblicistica croata chiama ancora «croati italianizzati», a giustificazione dei processi grotteschi dei tribunali del popolo, dove venivano accusati di tradimento della patria iugoslava.
On. Lucio Toth
vicepresidente FederEsuli