«Mi chiamano l’eurofanatica ma io mi definisco semplicemente eurorealista». Tanja Miscevic, sottosegretario alla Difesa, docente universitaria “prestata” alla politica e incaricata di guidare l’avvicinamento della Serbia a Unione europea e Alleanza atlantica, espone con convinzione e chiarezza le sue opinioni. «Per noi è fondamentale agganciarsi definitivamente all’Occidente, senza rinnegare però le nostre origini e la nostra identità» sottolinea. E così balza subito evidente il perché dello scheletro di cemento e macerie della vecchia sede del ministero della Difesa martoriato dalle bombe della Nato che appare dalle finestre del suo ufficio. Un “memento” che i governi fin qui succedutisi in riva al Danubio dai tempi dei raid contro Milosevic ma anche contro la città non hanno mai voluto abbattere e sostituire.
Un passato recente, immediato su scala storica, che pesa non solo tra la leadership serba, se anche il ragazzo dell’Ufficio informazioni turistiche, nella centrale Knez Mihailova, alla richiesta d’informazioni stradali cita allo straniero, con naturalezza, un “bomb district”. «La cooperazione con le nazioni del Patto atlantico sono molto buone – spiega Miskevic – e con l’Italia eccellenti. Colgo ogni occasione per ringraziare gli italiani e le loro Forze armate per l’impegno nella difesa dei nostri siti religiosi in Kosovo e Metohija. Rappresentano la culla della nostra identità storica e culturale, quindi siamo grati che il compito venga da voi svolto in maniera così esemplare».
Ma la cooperazione con i membri dell’Alleanza atlantica, complice un senso politico e un pragmatismo non comuni, non è limitata a quelli, geograficamente e “sentimentalmente” più vicini. Basti pensare che l’esercito serbo (la Vojska Srbije) ha coinvolto la Guardia nazionale dell’Ohio in un progetto di cooperazione civile-militare nella Valle di Presevo, nell’estremo Sud del Paese, zona a maggioranza etnica albanese e ancora un paio di settimane fa teatro di un attentato contro la polizia nazionale. Aiuti sanitari e nel miglioramento delle infrastrutture per «conquistare i cuori e le menti» dei recalcitranti residenti pro-Kosovo. «Ci teniamo – elenca piuttosto professoralmente Tanja Miscevic – a dimostrare la nostra professionalità contribuendo con i nostri partner al mantenimento della pace internazionale. Attualmente siamo impegnati con nostro personale in cinque missioni Onu, abbiamo due ufficiali della Flotta fluviale imbarcati nell’operazione anti-pirateria dell’Ue “Atalanta” e un medico militare in Uganda per l’addestramento dei governativi somali. Accettiamo apertamente, anzi sproniamo il giudizio degli altri: per migliorarci. A esempio quello, recente, della Commissione europea».
Il tono della conversazione diventa più sincero e coinvolgente quando si scende nei dettagli: «Mentre sull’adesione all’Ue il consenso è ampio, appena l’8-9% della popolazione è a favore dell’ingresso nella Nato. Ma la percentuale sale a ben il 34% tra il personale delle nostre forze armate: Esercito, Aeronautica e Difesa anti-aerea e “riverine”, poiché senza sbocchi al mare abbiamo smantellato la Marina». È un dato che non deve stupire in fondo: in molte occasioni gli uomini in uniforme, sulla base di valori comuni condivisi globalmente nel mondo militare e “da tecnici”, hanno preceduto i civili nei processi di cambiamento, rinnovamento o, in maniera solo apparentemente paradossale, di pacificazione. «Tutto questo – precisa il sottosegretario – anche se nei nostri ranghi lavorano un buon numero di attuali colonnelli e generali che hanno partecipato alle guerre che voi chiamate dell’ex Jugoslavia, ma in maniera onorevole. Molti tra questi sono convinti dell’opportunità dell’integrazione nelle strutture euroatlantiche. Preciso che noi “tecnici” non abbiamo mai esercitato pressioni sullo Stato maggiore, solamente chiesto di condividere le decisioni. La risposta è stata positiva. Del resto la Vojska Srbije è l’istituzione che gode di gran lunga della migliore reputazione tra i cittadini».
Popolarità a parte, il cammino verso Unione europea e Patto atlantico, in questo ultimo caso probabilmente limitato, data la politica di neutralità armata professata da Belgrado, all’«anticamera» del Partenariato per la Pace (Pfp) è lunga e irta di ostacoli: politici e tecnici. «Abbiamo già concluso – spiega l’ex docente universitaria – 55 accordi con altrettanti Stati: un segnale forte ma è solo un buon inizio. Lo stesso nostro ministero della Difesa ha bisogno di essere riformato, adottando migliori standard professionali, così come le forze armate devono omologare equipaggiamenti e procedure, con l’Ue che richiede di accertare il controllo democratico sulle nostre forze, l’adesione dei militari ai valori dei Ventisette, la certezza del diritto e il rispetto dei diritti delle minoranze. La Nato ha stabilito 42 obiettivi da centrare per l’integrazione: ci stiamo lavorando tramite il suo Ufficio di collegamento presente qui a Belgrado».
Se la Serbia è stata in grado di accogliere la richiesta Nato di formare un’unità di 2mila uomini per l’impiego nelle missioni di mantenimento della pace, il quadro generale della Difesa non si presenta certo roseo, come per tanti Paesi, specie negli anni della crisi economica globale. «Il 76% del budget – sottolinea Tanja Miscevic – se ne va, come in Italia, per gli stipendi e le spese per il personale. Il 20% circa è dedicato alle operazioni e meno del 10% agli investimenti. Abbiamo necessità di rinnovare i vecchi equipaggiamenti ma i fondi sono limitati. L’anno scorso abbiamo acquistato addestratori ad elica “Sparrow” ma il maggiore problema è come sostituire la linea dei jet Mig-29. Tra le opzioni l’ammodernamento o velivoli nuovi, anche l’Eurofighter è in gioco. Tra le priorità anche i mezzi di trasporto, con prodotti nazionali, e gli elicotteri. Ma la nostra industria degli armamenti, con prodotti di standard Nato ma anche dell’ex Patto di Varsavia, riesce anche ad esportare: un business da 280 milioni di dollari. Il nostro migliore acquirente davanti al Belgio? Gli Stati Uniti. Ho detto tutto».
Pier Paolo Garofalo
“Il Piccolo” 21 giugno 2012