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“In fuga dall’orrore”, il processo contro Mladic (Il Piccolo 10 Lug)

Con che occhi un ragazzino osserva la guerra? Come cambia la vita di un 14enne per colpa della pulizia etnica? Difficile raccontare il dolore, anche a vent’anni di distanza. Ieri, davanti ai giudici del processo contro Ratko Mladic, qualcuno ci ha provato. A farlo è stato Elvedin Pasic, oggi 34enne, che ha parlato con precisione, ripescando nella memoria indelebili ricordi. Interrompendosi più volte, sopraffatto dal pianto. Elvedin è stato il primo, storico testimone chiamato in causa dall’accusa per descrivere le violenze compiute dai soldati serbo-bosniaci di Mladic ai danni della popolazione civile durante la guerra in Bosnia.

 

L’uomo è entrato in aula e, con calma solo apparente, ha iniziato subito a rispondere alle domande del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia (Tpi). Pasic ha riportato giudici, avvocati e lo scarso pubblico presente ai prodromi del conflitto. Li ha trasportati nel suo villaggio natale, «al cento per cento musulmano». A Hrvacani, nella primavera del ‘92. Ha ricordato lo choc del principio del conflitto etnico, perché «a scuola eravamo serbi, croati, musulmani. Prima della guerra stavamo bene insieme, c’era rispetto e nessuna animosità». Mladic, presente in aula, annuiva.

 

Poi, è iniziata la fine, ben descritta dai flashback di Pasic. Le colonne di carri armati dell’esercito federale, con i serbi che «facevano il saluto con tre dita, anche se io non sapevo che cosa significasse». L’attacco serbo contro Hrvacani, il secondo giorno del Bayram, una delle festività musulmane più importanti. «Bombe e granate hanno cominciato a cadere sul villaggio, noi eravamo in cantina. Orribile. I proiettili colpivano le case, la terra tremava». La prima fuga durata settimane, di villaggio in villaggio, sempre respinti. Il tentativo di tornare a casa, durante la torrida estate, perché non c’era più un rifugio sicuro. I paramilitari serbi «ci hanno fermato. Ci hanno chiesto dove andassimo». «A casa, a Hrvacani». «Non c’è più niente lì, ora è Serbia, potete solo andarvene in Turchia», la risposta dei sottoposti di Mladic.

 

Che a Hrvacani non ci fosse più possibilità di vivere era vero. «Ricordo il caldo estremo, le case distrutte. Solo i camini erano in piedi. Le vacche morte. L’odore mi spaventava». Singhiozza, Pasic, quando ricorda l’eccitazione di rivedere la propria abitazione e la successiva disperazione. «La casa era bruciata. Il mio cane era stato ucciso». Come cani erano stati uccisi gli anziani del posto, che non erano potuti scappare, quasi tutti «arsi vivi». Poi il racconto della lunga “marcia della morte”, senza meta, assieme a un gruppo di 200 persone, tra cui padre e madre. Passaggi attraverso paesini serbi, dove le persone «ci sputavano addosso e ci maledicevano». Le imboscate. La prima della serie non sarà mai dimenticata. «Le pallottole volavano come lucciole. Mio padre mi nascose nella cavità di un albero. Mi recuperò dopo un’ora, mentre iniziava a piovere. C’erano dei morti».

 

Altri caddero dilaniati in campi minati, «ci chiedevano di finirli». Ancora altri chilometri verso il nulla, a girare in tondo, circondati dal nemico. Fame, sete, nuove imboscate. Infine, la resa ai serbi e la selezione. «Le armi a sinistra, gli oggetti di valore a destra. Se vi troviamo addosso un ago vi uccidiamo», minacciavano gli uomini di Mladic. L’arrivo al villaggio di Grabovica, la scuola dove furono reclusi. E dove donne e bambini furono definitivamente separati dai maschi adulti, incluso il padre di Pasic. I primi furono evacuati dopo essere stati maltrattati. I secondi, circa 150, eliminati. «Non dimenticherò mai una mano che ci salutava dalla scuola» durante l’evacuazione, ha detto Pasic, forse immaginando fosse l’ultimo saluto del padre. «Non ho dubbi che furono tutti uccisi», ha concluso. Mladic intanto ascoltava in silenzio, probabilmente esausto dopo cinque ore di racconti dell’orrore. Ma quelli di ieri sono stati solo l’esordio. Presto altri 200 testimoni oculari diranno la loro.

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