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Trieste e il male di frontiera. Viaggio nella città letteraria (Il Piccolo 11 lug)

Arriva da Londra una nitida fotografia dell’«elusivo fantasma di un’identità letteraria di Trieste», un ampio, organico, esame del mito di Trieste come città letteraria e della sua sfuggente identità. In “Trieste: italianità, triestinità e male di frontiera” (Gedit, pagg. 219, euro 18,00), Katia Pizzi, docente di letteratura e cultura italiana all’Institute of Germanic and Romance Studies della School of Advanced Study dell’Università di Londra, affronta con piglio multidisciplinare il “casus” triestino focalizzando la sua attenzione nel periodo che va tra il 1918 e il 1954, alla ricerca di una visione unitaria di quel composito, ma anche «disorganico e sfilacciato» profilo culturale che è la cifra caratteristica della città.

 

Non nuova al confronto con i labirinti identitari triestini (suo il volume “A city in Search of an Author: The Literary Identity of Trieste”, Londra-New York 2001) Katia Pizzi parte dal momento in cui «Trieste perde il ruolo economico primario goduto all’interno dell’Impero Austro-Ungarico, rimanendo gravata da emergenti problemi etnici e confinari», per addentrarsi in quella lunga stagione gravida di «presenze letterarie importanti» dove si delinea un concetto di triestinità «elusivo ma imprescindibile per una comprensione del fenomeno letterario triestino fino ai nostri giorni». Ciò che interessa alla studiosa non è tanto riesaminare e rivalutare figure canoniche della letteratura triestina, a cominciare da Italo Svevo, quanto piuttosto considerare la società – non solo letteraria – nel suo complesso alla luce dei mutamenti storici.

 

Ecco allora, per esempio, l’analisi della vena autobiografica di tanti romanzi, uno dei sentieri più battuti che portano al “mito di Trieste”, città dove «scrittori scrivono di pittori; artisti dipingono Trieste nello stile dei suoi autori. Scultori modellano busti di scrittori e dei loro figli (…)», e dove «autori triestini curano, stampano, comprano e recensiscono i reciproci sforzi letterari, dedicandoseli a vicenda», mentre «amanti sposano o fuggono insieme a mogli, mariti, figli di letterati, amici e parenti». In questo ambiente claustrofobico, autoreferenziale, tipico delle comunità ristrette e che allunga le sue propaggini fino ai nostri giorni, Katia Pizzi tratteggia una mappa variegata seguendo due principali direttive: «Trieste nella letteratura, la città nel suo aspetto antropomorfo, personificato; e Trieste e la letteratura, cioè la letteratura triestina e la triestinità».

 

Il risultato è un saggio che se da un alto non si allontana di molto da consolidate interpretazioni, dall’altro dà nel suo complesso una visione originale delle turbolenze triestine, sottolineando e sviscerando aspetti solo apparentemente secondari. Come quell’idea di “Trieste materna”, intesa come «vincolo tra cultura e nazione», che caratterizza tante opere della prima metà del Ventesimo secolo. È ciò che Roberto Curci e Gabriella Ziani indagando le scrittrici triestine chiameranno “maternalismo” e che l’autrice spiega in termini psicanalitici: l’Italia vista come madre che diventerà, nel secondo dopoguerra, matrigna, alimentando quella “nevrosi del tradimento” che ben conosciamo anche fuori dalle pagine letterarie. Uscito un po’ in sordina (e di non facilissima reperibilità) il saggio di Katia Pizzi è una bussola in più per cercare di orientarsi nell’«infinita e fondamentalmente illusoria» identità triestina.

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