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Sulle tracce delle foibe dimenticate (Avvenire 24 giu)

Eccola la nera voragine. Si spalanca all’improvviso in mezzo alla campagna incolta, nessun cartello, nessun sentiero. Di una Croce nemmeno parlarne. Solo un vecchio fil di ferro, sfondato da anni, delimita la foiba di Terli, comune di Barbana, Croazia. Il rischio che qualcuno ci precipiti dentro, evidentemente, è considerato minore del rischio di ricordare quel luogo. Perché è lì, in quell’orrido, che nella notte del 5 ottobre 1943 i partigiani comunisti di Tito gettarono decine di italiani, tutti civili innocenti: nessun gerarca fascista, nessun “nemico del popolo”, solo manovali, contadini, fuochisti, un oste, un commerciante (Giacomo Zuccon, nonno materno dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne)… Persino quattro donne, e tre ragazzini. Qualche giorno dopo l’eccidio, nonostante le minacce e gli agguati dei titini, i Vigili del Fuoco di Pola coordinati dal maresciallo Arnaldo Harzarich si calarono nella foiba e recuperarono i resti straziati di ventisei persone: solo una parte di quelle che giacevano là sotto, a centinaia di metri. Dopo di allora, silenzio: la foiba di Terli non fu più ispezionata e nessuno indagò sui colpevoli del massacro, sebbene la gente ne conoscesse nome e cognome. Il luogo fu dimenticato. Giugno 2012. Silenziose, con un macigno sul cuore, duecento persone ripercorrono lo stesso cammino che settantun anni prima in una notte di terrore uomini, donne e ragazzini, legati tra loro con il filo di ferro, fecero sapendo che sarebbero «finiti in foiba». Sono gli esuli istriani del Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe), tornati qualche giorno nelle loro terre per un “Percorso della memoria e della riconciliazione”, e con loro ci sono anche gli “altri” italiani, quelli che all’epoca non scelsero la via dell’esodo ma restarono nonostante il regime di Tito. I “rimasti”, insomma. Dopo decenni di incomprensioni reciproche, si ritrovano sull’orlo di quella foiba. «Ci abbiamo messo mesi a rintracciarla, occultata com’era, si sapeva solo che esisteva, si conoscevano persino i nomi e le storie delle vittime, ma non dove fosse di preciso», spiega Silvio Mazzaroli, direttore dell’”Arena di Pola”, il mensile che in tutto il mondo raggiunge i polesani della diaspora. E lui che, tenendo per mano Sara, la nipote del maresciallo Harzarich, si sporge sul buio, proprio nel punto in cui gli italiani furono gettati dentro, e lascia cadere una corona con nastro tricolore, «Gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia». Don Miro Paranaik, parroco di Barbana, benedice con l’acqua santa e guida la preghiera. Molti piangono, il pensiero a un padre, un fratello, un amico sparito nel nulla.

 

Abbiamo scelto Terli come simbolo degli eccidi compiuti fra il 1943 e il 1945 in Istria perché è una delle poche foibe su cui si hanno certezze inoppugnabili, storicamente importanti per smentire le teorie giustificazioniste o assolutorie», dice Paolo Radivo, storico e giovane consigliere del Lcpe. Ecco infatti cosa avvenne: il 2 ottobre i partigiani con la stella rossa rastrellarono decine di italiani nei paesi intorno a Pola, perché ormai «sapevano troppo» degli eccidi, andavano tacitati prima dell’arrivo dei tedeschi. «Quelli di Marzana subirono una gogna pubblica -continua Radivo, citando le minuziose indagini condotte all’epoca da Harzarich per conto della Procura di Stato provinciale -, costretti a bere nafta davanti alla popolazione impotente». Per tre giorni tutti gli arrestati furono seviziati in un edifìcio di Barbana, poi, all’arrivo dei tedeschi, furono condotti di notte alla foiba di Terli. Nella relazione che Harzarich consegnò nel 1945 al governo militare alleato (Pola restò fino al 1947 sotto l’occupazione e quindi la tutela degli anglo-americani) si legge che su molti corpi c’erano colpi di arma da fuoco in testa, e all’imboccatura della foiba c’erano numerose tracce di proiettile, «segno che gli assassini gli sparavano anche mentre precipitavano».

 

Una foto d’epoca mostra i corpi delle quattro donne. Tre sono le sorelle Radecchi, la più grande delle quali, Albina, era prossima al parto. Rapite da casa subito dopo l’8 settembre, per giorni furono stuprate, poi precipitate in foiba ancora vive. Irriferibili le parole del referto. La quarta donna, Amalia Ardossi, tentato invano di impedire l’arresto del marito, volle seguirlo fino alla morte. I due corpi furono ritrovati legati insieme dal fil di ferro. «E poi c’era Pierto Gonan, commerciante di 52 anni, infoibato col fratello – aggiunge Mazzaroli – per vendetta personale: sei anni prima sua figlia Matilde, diciassettenne, era stata violentata e uccisa da tre jugoslavi poi condannati al carcere. Ecco perché si infoibava, ecco chi erano le vittime, altro che fascisti». Pietro Gonan era addirittura un antifascista, così come i due scalpellini Del Bianco, che per un certo tempo avevano anche militato nel movimento di liberazione jugoslavo ma poi se n’erano distaccati, o Nicolò Carmignani, vecchio comunista di Gallesano. La banalità del male vuole che in foiba si finisse semplicemente per vendetta, per ritorsioni, per invidie, per questioni di cattivo vicinato. E perché si era italiani. Terli, sacrario a cielo aperto. È lì che esuli e rimasti hanno pregato insieme dopo decenni di ostile silenzio, recitando le parole che nel 1959 scrisse Antonio Santin, vescovo di Trieste, “in suffragio delle anime degli infoibati”: «Ci rivolgiamo a Te perché tu hai raccolto l’ultimo loro grido. Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra -hanno detto, lo sguardo al baratro dove ancora riposano chissà quante salme -indica le vie della giustizia e dell’amore». Per i trapassati, «morti senza nome, ma da Te conosciuti e amati», un pensiero di pace. Per i vivi un monito: «Fa’ che gli uomini, spaventati dalle conseguenze terribili dell’odio, ritornino nella Tua casa. Per amarsi tutti come figli dello stesso Padre».

 

Fra slavi e italiani la ricerca di una riconciliazione

 

Questa è la prima manifestazione pubblica mai avvenuta su una foiba. Nemmeno voi vi rendete conto del passo che è stato fatto oggi, dopo sette decenni. Vuol dire che i tempi sono cambiati, ora cambino le persone». Parola di Furio Radin, deputato al Parlamento croato per la minoranza italiana, con gli esuli sulla foiba di Terli. «Tra qualche anno metteremo una croce, ora è troppo presto». Era stato il parroco polacco di Barbana, poco prima, a chiedere un segno sulla foiba: «Da molti anni vivo qui eppure non ne sapevo nulla». Il “Percorso della riconciliazione” ha toccato altri importanti luoghi in cui italiani, ma anche croati e sloveni, furono «vittime degli opposti totalitarismi del ’900», nazifascismo e comunismo. Interessante soprattutto la tappa a Capodistria, dove lo stesso governo sloveno nel 2005 ha eretto un monumento con epigrafe bilingue, “Cavità carsiche – Vittime della guerra e delle esecuzioni nel dopoguerra – nazionalità sconosciuta”. Vi sono sepolti metà dei 130 cadaveri rinvenuti nel 1991 da una commissione di storici e speleologi in undici foibe, esplorate su mandato del Comune dopo che a Capodistria erano stati notati alcuni ragazzi che sul fanale del motorino avevano montato teschi umani. «Nelle undici cavità furono trovati scheletri, tonache di sacerdoti, uniformi di Carabinieri, di tutto. Il mandato era identificare le salme e dar loro sepoltura, ma appena emersero le responsabilità il caso fu insabbiato e le foibe riempite di immondizia», racconta Mazzaroli. I membri della commissione furono licenziati, ma riuscirono a pubblicare il tutto su una rivista speleologica italiana. In tutta l’Istria si ha notizia ufficiale di venticinque foibe, ma molte di più sono quelle di cui non resta traccia, se non nella memoria di chi, però, non parla.

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