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Il marchio dell’Isola Calva condiviso in famiglia (Voce del Popolo 24 ago)

Per colpa di una frase di troppo il fiumano Gino Kmet ha trascorso nel carcere di Isola Calva 22 mesi d’inferno. Un’esperienza tragica, inumana, orchestrata da un sistema e da aguzzini che non possedevano alcun briciolo di umanità e pietà. Una prigione, quella dell’Isola Calva, che il regime jugoslavo adoperava quale laboratorio per assicurare il dominio assoluto sull’uomo. Un’esperienza incomunicabile per chi non l’ha vissuta, incomprensibile da capire in tutta la sua problematicità.

 

La nostra attenzione, tuttavia, non si concentra esclusivamente su Kmet o sugli altri prigionieri. Il nostro quotidiano si è occupato dell’argomento diverse volte, affrontando opere di Giacomo Scotti (“Goli Otok, italiani nel gulag di Tito”) e di Luciano Giuricin (“La memoria di Goli Otok – Isola Calva”) e intervistando alcuni dei protagonisti. Il nostro interesse si concentra sulla complessa realtà carceraria che di riflesso hanno subito le famiglie e, soprattutto, i figli dei carcerati. Dal disagio affettivo, economico, sociale fino al marchio indelebile che hanno dovuto portarsi dietro come reietti della società. Ecco perché abbiamo voluto incontrare la figlia di Gino Kmet, Irene Mestrovich, quale testimone di un’epopea già nota e analizzata, ma vista da un’ottica diversa. Lo abbiamo fatto in concomitanza con il 23 agosto, quando in alcuni paesi dell’Europa – tra cui Croazia e Slovenia – viene celebrata la Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo.

 

“A soli 26 anni, nel 1949, mio padre venne spedito sull’Isola Calva – esordisce Irene Mestrovich –. Non era la prima volta che veniva coinvolto nel crudele regime delle carceri. Già nel ‘42 aveva subito la condanna al confino, a Ustica e Ventotene, da parte del Tribunale speciale fascista, per attività sovversiva. Nelle isolette del Mediterraneo ebbe modo di stringere importanti amicizie con attivisti comunisti. Nel settembre del ’43, a seguito della capitolazione dell’Italia, riuscì a risalire la penisola e tornare a casa, dove si aggregò al Battaglione fiumano. Nel corso di un’offensiva tedesca il gruppo subì un pesante colpo e si disgregò. Non conoscendo la lingua croata, i superstiti chiesero di entrare a far parte di un gruppo partigiano italiano. Ciò non accadde, ma furono invece incorporati nella XIII Divisione che operava in Lika e dove mio padre fu ferito gravemente”.

 

Come mai fu dislocato in Lika?

 

“Molto probabilmente è stata una strategia orchestrata dall’Armata Popolare Jugoslava con lo scopo di allontanare tutti i partigiani italiani dal loro territorio natio, dalla loro regione d’insediamento storico, in modo che non ci fosse alcuna rivendicazione territoriale. L’eliminazione dell’elemento italiano da queste terre è stata una strategia voluta dall’alto e studiata nei minimi particolari”.

 

Che cosa accadde in seguito?

 

“Con la fine della guerra mio padre iniziò a occuparsi di attività politica. Si sposò e nel ’47 nacqui io. Due anni dopo, nell’agosto del ’49, la polizia segreta venne a prenderlo di notte. Come tantissimi altri non ebbe alcun processo. Neanche l’accusa era chiara. Molto probabilmente nel corso di una delle riunioni che riguardavano l’artigianato e il commercio, disse una parola di troppo e venne bollato come cominformista”.

 

L’espressione categorica per la quale la colpa del padre non viene trasmessa ai figli, non è valsa per la sua intera famiglia?

 

“Si dice che ognuno risponde del proprio comportamento. Ma questo non è valso per nostro padre, le cui ‘colpe’ sono state divise anche tra noi. Una volta arrestato, infatti, l’intera famiglia (mia mamma, mio fratello in tenerissima età ed io) venne sfrattata e messa in strada. Mia madre rischiò di perdere il lavoro e soffrì tantissime angherie da ogni parte. All’epoca aveva solo 22 anni, era una semplice impiegata. Come le mogli degli altri carcerati, ha dovuto sopportare pressioni per divorziare dal marito. Molte l’hanno fatto, pensando così di salvare il salvabile. La mia no”.

 

Come figlia di un carcerato dell’Isola Calva, ha portato il marchio di tale tragedia?

 

            “Numerose persone evitavano la nostra famiglia, per il semplice fatto che avevano paura di compromettersi. Le amicizie si sono sviluppate nell’ambito di quelle che erano rimaste coinvolte direttamente o indirettamente con l’Isola Calva. È stato quindi un marchio invisibile per me, ma ben chiaro per tutti gli altri. All’epoca ero una bambina e non ero consapevole di tale comportamento e di ciò che stava succedendo. Con gli anni rievocando certi fatti, ti rendi conti che portavi praticamente impresso un ‘marchio’ per cui gli altri ti tenevano a una certa distanza”.

 

C’è un ricordo specifico che la lega a questo segno distintivo?

 

“Spesso venivo apostrofata alle mie spalle come ‘la figlia di quel cominformista’, e altre dicerie di cui non ricordo l’esatta costruzione”.

 

Una volta scontata la pena, come si “respirava” a casa vostra?

 

“Non si parlava mai di quello che era accaduto sull’Isola Calva. Era una sorta di tabù. Un argomento di cui nostro padre non faceva cenno con noi. Solo più tardi, in età adolescenziale, spinto dalla mia perseveranza, mi confidò alcuni fatti. Erano episodi di guerra, o accaduti sull’Isola Calva, raccontati in forma allegra e spiritosa, per non affliggerci. Ha sempre cercato di mantenere la famiglia lontana da questa tragedia”.

 

Suo padre non si è mai lamentato delle angherie subite sull’isola?

 

“Non ho mai avuto questa percezione. Ha coltivato sempre una serie d’interessi che per lui erano una sorta di valvola catartica. L’unico particolare che si è concesso di raccontarmi riguarda l’accoglienza sull’isola. Un ‘benvenuto’ a base di botte, una corsa sotto i colpi dello ‘Stroj’, il corridoio di detenuti che aveva il compito di riceverli a bastonate. Chi rifiutava ne pagava le conseguenze. Causa una ferita alla schiena nel corso della guerra, mio padre aveva un solo polmone e correva con grande fatica. Le bastonate dei detenuti veterani gli avevano riaperto la ferita e lungo la corsa qualcuno del gruppo gli sussurrò in dialetto fiumano di tenere duro, che c’erano ancora pochi metri da correre. Non ha mai scoperto di chi si trattasse”.

 

Ha mai visitato l’isola?

 

“No. Mi dispiace di aver rifiutato la proposta di mio padre a rivedere insieme l’isola. Non l’ho voluto fare perché penso che avrebbe rappresentato troppo dolore. Comunque dell’Isola Calva e delle altre tragedie bisogna parlare; per non dimenticare”.

 

Suo padre non ha mai richiesto un indennizzo?

 

“L’ha fatto da persona singola, senza l’aiuto delle associazioni degli ex combattenti. Ha presentato richiesta di risarcimento richiamandosi a una legge, e da Zagabria gli hanno risposto che non riconoscono la sua partecipazione poiché non ha combattuto per la Croazia, ma per la Jugoslavia. Mio padre ha combattuto sempre con l’idea che una volta chiuso con il nazifascismo – che tra l’altro era anche la raccomandazione del Partito Comunista Italiano (che ha avuto la sua fetta di responsabilità in tutta questa storia) –, si sarebbe proceduto con il referendum per scegliere a quale stato appartenere. È andato avanti credendo a questa promessa, che come sappiamo non si è mai realizzata. Anzi, è accaduto l’opposto. Ha combattuto per la libertà del suo popolo, non ha combattuto per una Jugoslavia o per una Croazia, come gli viene spiegato nella motivazione del rifiuto alla sua richiesta. Tuttavia la rabbia più grande sta nel fatto che il governo non vuole sentire parlare di questi carcerati, ma riconosce solamente quelli che sono venuti successivamente, ossia i dissidenti della Primavera Croata degli anni ‘60. Anche il loro è stato un inferno, però non riesco a capire perché a loro si chieda scusa e a quelli di prima no.”

 

Gianfranco Miksa

“la Voce del Popolo” 24 agosto 2012

 

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