Milano rende omaggio ad Angiolo D’Andrea, protagonista friulano del Simbolismo, da anni a torto dimenticato. E lo fa con un’ampia mostra che si apre oggi al Museo della città di palazzo Morando, centocinquanta opere tra dipinti, disegni e decorazioni architettoniche che provengono in gran parte dalle collezioni di una stessa famiglia, quella della triestina Diana Bracco, presidente e amministratore delegato dell’omonimo gruppo, numero due di Confindustria e presidente di Expo 2015.
«Il titolo dell’esposizione, “Angiolo D’Andrea. La riscoperta di un maestro tra Simbolismo e Novecento”, può sembrare ambizioso, o addirittura velleitario», spiega il curatore Luciano Caramel. Soprattutto perché l’artista è poco più che un nome al di fuori della sua terra d’origine, il Friuli, dove nacque, a Rauscedo in provincia di Pordenone nel 1880, per tornare a morirvi, malato e ormai fuori dal giro, nel novembre 1942. Eppure proprio in Lombardia, e a Milano, D’Andrea, che era pittore ma aperto all’integrazione delle arti e attento in particolare all’architettura, svolse tutta la sua attività, lontano dalle luci della ribalta, schivo e introverso, ma non per questo meno incisivo nei fermenti artistici di quegli anni.
La decisione di dedicargli una prima retrospettiva nasce dal recente recupero del fondo di dipinti di proprietà della famiglia e della Fondazione Bracco, sostenitore dell’iniziativa insieme al Comune di Milano e a Skira Editore. Una collezione originata da una storia toccante, che prende le mosse da quando Angiolo D’Andrea, ormai malato, fu costretto a ritornare a Rauscedo, lasciando nel suo studio di via Macedonio Melloni a Milano, un cospicuo numero di lavori. Le opere vennero catalogate dall’amico scultore Riccardo Fontana, che si occupò di trovare un collezionista disposto ad acquistare i quadri in blocco, sia per non disperdere il testamento artistico di Angiolo sia per dare una mano economica ai familiari.
L’acquirente venne individuato: era l’industriale farmaceutico Elio Bracco, dalmata di Lussino e imprenditore tra Trieste e Milano, che visitò lo studio a due giorni dalla morte di D’Andrea e rimase colpito, e più che mai convinto, dal valore dell’artista friulano, accettando così di concludere la transazione e di mantenere unito un nucleo rilevante di lavori. «È al nonno che si deve il “salvataggio” della produzione di D’Andrea – dice Diana Bracco – un’operazione cui avrebbe dovuto far seguito un evento espositivo per divulgare un’opera poco conosciuta. È quanto emerge da una lettera datata 12 settembre 1947 destinata a un erede del maestro, che abbiamo ritrovato con non poca emozione. “Tutti i quadri del povero Angelo D’Andrea – scriveva nonno Elio – sono stati salvati e sono sempre in mio possesso. Mi riprometto il prossimo anno di fare una mostra postuma a Milano, dopo che avrò preparato un catalogo generale di tutte le sue opere. Se avrò bisogno di qualche informazione, vi scriverò perché, come ebbi a dirvi a tuo tempo, è mio desiderio che rifulga l’opera di questo grande maestro”».
Nei primi quarant’anni del ’900, infatti, D’Andrea aveva ricevuto lusinghieri riconoscimenti di critica e di mercato, soprattutto a Milano, aveva esposto nella prestigiosa Galleria Pesaro e in altre sedi importanti. E a Milano aveva realizzato anche alcuni pregevoli interventi architettonici, come le decorazioni di palazzo Berri Meregalli in via Cappuccini e i mosaici del bar “Camparino” in galleria Vittorio Emanuele, tra il 1922 e il 1925, che evidenziano l’evoluzione di mezzi e stili avvenuta nel decennio trascorso. Elio Bracco non potè mai realizzare la mostra su D’Andrea. Negli anni del dopoguerra dovette concentrarsi sulla ricostruzione dell’azienda e quel desiderio rimase tale. Alla sua morte, avvenuta a Roma, i quadri vennero portati a Milano, custoditi nel patrimonio della famiglia. Oggi, Diana e la sorella Gemma, con i cugini Rossella ed Elio Filippo Bracco, organizzano questa mostra per dar rilievo a un duplice anniversario: i settant’anni dalla morte del pittore e gli ottantacinque dalla nascita del Gruppo Bracco.
«Ci è sembrata un’iniziativa particolarmente significativa – sottolinea Diana Bracco – e in un certo senso “dovuta”: sia nei confronti di nostro nonno e del suo impegno in veste di imprenditore e mecenate, sia nei confronti di Angiolo D’Andrea, un artista italiano che merita di essere riscoperto in tutto il suo valore». Oltre alle opere della famiglia, in mostra ci sono dipinti provenienti dal Museo di Milano, dal Museo del ’900, dalla Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza e otto disegni dal Mart di Rovereto. Il percorso segue l’ordine cronologico delle opere e propone l’esperienza di D’Andrea come disegnatore, illustratore e autore di pitture nell’architettura, dagli esordi fino al 1938 (molto interessanti le illustrazioni per la rivista Arte italiana decorativa e industriale diretta da Camillo Boito), poi i disegni e gli acquerelli di luoghi storici milanesi, le tavole dedicate all’architettura e i cartoni eseguiti per le vetrate di chiesa e sala dei benefattori dell’ospedale di Niguarda.
Sfilano quindi le tele dominate da allegorie e simboli, il ciclo dedicato al sacro (dove spicca la grande “Gratia Plena” del ’22, con cui vinse la Biennale di Venezia), i dipinti incentrati sulla spiritualità immanente alla natura, la contemplazione dei paesaggi, il ciclo sui combattimenti della grande guerra, che visse in prima persona. Ma perchè Angiolo D’Andrea cadde nel dimenticatoio? Le ipotesi sono varie e si addensano sugli anni Trenta quando, forse già sofferente, allentò i contatti con gli ambienti artistici. Pare non avesse grandi simpatie per il regime, come attesta l’unica partecipazione, e con un’unica tela, alla Quarta mostra regionale del sindacato fascista, nel 1933. Forse, semplicemente, i gusti del pubblico stavano cambiando, entrando nel ’900 maturo, e il “colorista audace ed eccezionale”, come lo definisce Stefano Aloisi nell’unico saggio sull’artista, non incontrava più. Alla sua morte, la critica lo aveva già da tempo disertato e, in seguito, quasi nulla, e tutto in ambito locale, contribuisce a custodirne nome e carriera. Fino alla mostra di Milano, che lo stesso curatore Caramel definisce un “risarcimento”.
Arianna Boria
“Il Piccolo” 8 novembre 2012