La Belgrado che lasciò più di settant’anni fa sarebbe oggi per lui una città irriconoscibile, stravolta da guerre e da più o meno recenti furori edilizi. Ma Pietro II di Jugoslavia, deceduto nel 1970, ultimo re della monarchia balcanica, non la rivedrà. Le sue spoglie potranno però riposare in patria, a 43 anni dalla sua morte e a 72 dall’esilio forzato, cui fu costretto a seguito del conflitto con la Germania hitleriana.
Così ha annunciato la casa reale serba, con un comunicato pubblicato sul suo sito ufficiale. Il principe Aleksandar Karadjordjevic, figlio di Pietro e – sulla carta – erede al trono, «si è detto orgoglioso che il proprio padre ritornerà finalmente a casa» per essere inumato nel mausoleo di Oplenac. È un «evento commovente», ha aggiunto Aleksandar, «e di grande importanza storica per i serbi», che secondo un recente sondaggio sarebbero favorevoli (64%) alla restaurazione della monarchia. Aleksandar che ha poi ringraziato chi ha reso possibile la chiusura di un capitolo controverso della storia jugoslava. Come nel caso della salma del reggente Pavle, riportato in Serbia nell’ottobre scorso, è stata la nuova classe dirigente salita al potere dopo il voto di maggio ad aver permesso il grande passo.
«Ringraziamo calorosamente», hanno specificato i Karadjordjevic, «il presidente Nikolic e il governo» per il loro «meraviglioso sostegno». La data della cerimonia per il ritorno dei resti del re sarà invece decisa successivamente, «di concerto con la chiesa ortodossa». Ma tutto fa pensare che entro l’anno Petar II, che di fatto regnò solo per poche settimane e che fu definitivamente deposto nel 1945, potrà riposare non lontano da Belgrado.
Un re la cui storia si mescola con quella dell’Europa degli anni Venti e Trenta, con la tragedia del Vecchio continente durante la Seconda guerra. Nato nel 1923, Petar perse il padre, Aleksandar I, quando aveva solo 11 anni. Padre che fu assassinato a Marsiglia, nel ’34, da un irredentista macedone collegato agli ustascia. Il re, minorenne, rimase nell’ombra fino al 1941. Nel marzo di quell’anno, il reggente Pavle e il primo ministro Cvetkovic decisero di firmare un patto di non aggressione con la Germania di Hitler. Un’alleanza che – a detta della maggioranza degli storici – rappresentava un trionfo diplomatico, dato che concedeva a Berlino solo di trasportare materiale bellico, non truppe, attraverso la Jugoslavia.
Ma Belgrado insorse lo stesso, al grido di «Bolje rat nego pakt» (meglio la guerra che il patto) e «Bolje grob nego rob» (meglio morti che schiavi). E reagì con un colpo di Stato militare, che il 27 dello stesso mese insediò Petar, completamente all’oscuro del golpe. Poi, la furia di Hitler, i 10mila morti nel bombardamento di Belgrado, l’invasione ad opera dei nazisti, la fuga a Londra, l’abolizione della monarchia, la morte negli Usa. E ora, 43 anni dopo, il ritorno a casa.
Stefano Giantin
“Il Piccolo” 20 gennaio 2013