Roma, la diplomazia croata ha sede in un quartiere elegante, vicino ai Parioli, l’accoglienza è calorosa, un caffè di benvenuto come si conviene, ma soprattutto l’incontro con l’Ambasciatore, Damir Grubiša, fiumano, docente universitario, politologo, aperto, disponibile, che ci viene incontro con la mano tesa e un sorriso coinvolgente. Il suo insediamento risale a solo qualche mese fa, ma in questi tempi in continua accelerazione, tutto lievita in fretta, così il suo impegno immediato e, naturalmente, la sua notorietà. I contatti sono già stati tanti, basta scorrere il sito dell’Ambasciata. Tra gli impegni, anche l’invito al Quirinale per partecipare alla cerimonia del Giorno del Ricordo. Una riflessione su questa ricorrenza, è la prima domanda che gli rivolgiamo.
“Si è discusso per tanto tempo del concetto di memoria condivisa – risponde –, per giungere alla conclusione che la via migliore sia comunque quella di un approccio pluralistico nel rispetto della memoria altrui e dei singoli percorsi. I nostri Paesi hanno attraversato periodi storici molto travagliati a cavallo tra Ottocento e Novecento, a causa del fiorire dei nazionalismi. L’insorgere di nuove identità ha portato ad inevitabili scontri. Tragedia ha voluto che a ciò si aggiungessero nuove forme autoritarie come il fascismo ed il comunismo bolscevico. Si è innescata pertanto questa spirale di violenza di cui è intrisa la nostra vicenda. Che fare? Il superamento di quanto è stato, passa anche attraverso il grande contributo dei Presidenti Giorgio Napolitano, Ivo Josipović e Danilo Türk, che si sono incontrati nel 2010 a Trieste, dando vita allo spirito di Trieste. Il che significa prendere coscienza di tutto ciò che è stato e ripartire da queste premesse per un futuro europeo. Se è vero che l’Europa unita è riuscita a superare il nazionalismo francese e tedesco, perché non dovrebbe farlo anche sul nostro confine. Naturalmente la nuova realtà – ed è significativo il Nobel assegnato all’Unione Europea – ci ha dimostrato che è possibile, abbattendo proprio i confini, creare una nuova comunità nella quale ognuno entra con la propria identità culturale e storica non tacendo e non mistificando né la propria storia né quella degli altri, in un dialogo che favorisce la costruzione di basi comuni. L’idea di un’Europa ancora più unita è un possibile traguardo che ci traghetterà da un secolo e più di conflitti che hanno portato a guerre orrende, vendette, revanscismi, ad un nuovo corso. Credo nell’Europa dei cittadini, di una realtà senza frontiere, dell’Europa della solidarietà, del benessere, della sussidiarietà, di tutte quelle forme di civile convivenza che sono scaturite dalla nostra storia. Intendo che non abbiamo solo sofferenza alle spalle, se tanto è stato distrutto, molto si è costruito. Le brutture ci hanno fatto male e non le dobbiamo dimenticare, ma non possiamo più farci condizionare, dobbiamo andare avanti, maturi, consapevoli”.
Perché è così difficile superare il concetto di confine che ci portiamo dentro e che continua a creare divisioni, suscita sospetti, ci rende inadatti a vivere persuasi?
“Tutti noi nati e cresciuti su questo confine, dobbiamo prendere coscienza di quanto sia importante l’osmosi tra le etnie, le popolazioni, attraverso la conoscenza di lingue diverse, la comprensione, la capacità di capire i codici culturali degli altri: è questo che ci fornisce una solida base per vivere in un’Europa multiculturale. Che permette di superare i conflitti proprio a cavallo di confine. Prendiamo l’esempio di Fiume: la sua multiculturalità le ha permesso di crescere. Così è successo anche nell’ex Jugoslavia, dove il federalismo ha supportato un inesistente pluralismo politico per cui le cose potevano funzionare meglio che negli altri Stati comunisti. Ora noi siamo pienamente consapevoli che senza una realtà multiculturale non si possa vivere nel mondo d’oggi, per noi che ne conosciamo i percorsi deve diventare una forza”.
Che cosa ne pensano i giovani coi quali lei si è sempre rapportato come docente. Hanno un atteggiamento diverso con queste tematiche, in particolare col nodo della storia?
“Sono meno condizionati dalle tragedie del Novecento e più passa il tempo, più la forbice s’allarga tanto da far sembrare tutto lontano, come le guerre puniche. La memoria certamente continuerà a vivere nelle future generazioni, ma non la sentiranno più sulla propria pelle. Si dice che le guerre finiscano quando muore anche l’ultimo combattente”.
Spesso si imputa all’Europa di basarsi unicamente su un collante economico. A luglio l’Unione si estenderà anche alla Croazia, che cosa ci si aspetta da questa nuova dimensione?
“La Croazia ambisce a far parte del mercato unico europeo anche perché si basa su quattro grandi libertà: la mobilità del lavoro, del capitale, delle merci e dei servizi. Vale a dire il presupposto necessario a creare una società moderna, che si sta integrando nonostante i tentativi di relegarla in piccoli settori. Ma economia significa anche condividere il futuro di popolazioni, nazioni, di cittadini europei appartenenti ad un’unica famiglia, e non solo perché esistono tra noi dei legami storici, ma soprattutto perché creiamo un nuovo futuro, che è la cosa più importante. Negli anni Novanta il presidente Tuđman diceva: noi dobbiamo far parte dell’Europa per diritto storico perché siamo sempre stati l’ante murales della cristianità. È un approccio che definirei retrogado. È vero che le nostre radici sono comuni, intrecciate alle civiltà del passato che ci hanno lasciato tanto, dal Rinascimento all’Umanesimo, fino all’Austria-Ungheria e passando per i processi di industrializzazione, però la nostra scelta europea è anche concreta, materiale ovvero la ricerca di una sicurezza che ci garantisce proprio lo stare insieme con tutte queste genti, in pace da sessant’anni, e non è poco”.
La crisi fa paura, potrebbe minare le fondamenta dell’Europa se l’integrazione dovesse rimanere nella sfera economica?
“No. Entrando nel sistema economico europeo noi saremo in grado di recepire tutte le cose positive che si collegano a tale processo: attività commerciale congiunta, investimenti sia privati che comunitari, nazionali e transnazionali e poi, la cosa più importante è il concetto di uguaglianza tra cittadini con il medesimo grado di garanzie in un territorio molto vasto che è una delle caratteristiche principali dell’Unione Europea. Oggi è obiettivamente in crisi, ma è anche vero che la crisi è generale. Naturalmente potrebbe portare alla disperazione, ma potrebbe anche indurre ad immaginare nuovi percorsi, con stimoli diversi che ci rendano più forti e disposti ad investire maggiori energie per il suo superamento. Da ogni situazione di crisi nascono impulsi positivi perciò se è giusto avere una dose reale di pessimismo è anche vero che dobbiamo fare leva sull’ottimismo per poter immaginare scenari migliori per noi ed i nostri figli ed il prossimo in generale”.
Qual è stato il ruolo, in questi anni d’avvicinamento all’UE, dei progetti europei come l’IPA Adriatico esteso anche a Paesi che non ne fanno parte? Si può considerare una prova generale?
“È una delle attrattive dell’UE, che mette a disposizione dei nuovi membri, anche durante il processo di adesione, i mezzi necessari ad operare in vari campi trasformando un’utopia in qualcosa di molto concreto. Un’Europa che aiuta la gente ad inserirsi con i fondi strutturali, con i fondi di coesione, dando delle chiare prospettive economiche, non è un’esca, è una rappresentazione concreta di come può funzionare un sistema integrato. Il tutto basato non su finanziamenti a pioggia, ma su progetti che bisogna sapere immaginare e sviluppare congiuntamente, all’interno di una realtà produttiva in cui ognuno investe le proprie capacità. Un mutamento profondo rispetto alle sovvenzioni, agli aiuti, alle integrazioni del passato. Ora si finanziano le idee condivise che mettono in contatto le varie realtà. Si tratta di un sistema che ha dato ottimi risultati proprio in quelle dimensioni imprenditoriali che erano al di sotto della media del Pil pro capite”.
L’Ambasciata è anche una vetrina, su che cosa state operando in questo momento delicato di cammino verso l’Europa?
“Il concetto classico di diplomazia è stato superato da tempo, non è più il veicolo di dialogo tra le diverse realtà statali, oggi la comunicazione avviene in altro modo, con mezzi veloci, anzi direi immediati. A noi il compito di rappresentare degnamente il nostro Stato e impostare nuovi rapporti superando le vecchie barriere di una diplomazia che s’impegnava a mettere paletti dappertutto. Bastava entrare in un’Ambasciata, dire buongiorno e c’era già qualcuno che rispondeva ‘non si può’ prima ancora di conoscere il problema. ‘Non se pol’ si direbbe a Trieste. Ora lavoriamo molto su progetti di vetrina, dialoghiamo con ambienti di interfaccia naturale e usando mezzi tecnologici al passo con i tempi. Non è più l’Ambasciatore che trasmette i messaggi tra i ministri, ci pensa Internet. Pochi giorni fa a Torino ho assistito ad un incontro in videoconferenza con il Presidente Hollande, ormai è questa la nostra realtà. Nel passato i diplomatici erano dei privilegiati, oggi sono dei funzionari che svolgono le proprie mansioni, e basta. Gente normale che deve sapere comunicare. Rimane fondamentale la capacità analitica, il capire le cose. È un po’ quanto succede con i corrispondenti esteri dei giornali, hanno tutt’altra funzione, quella di mediare, di cercare di capire sfruttando un punto d’osservazione particolare, mettendo a frutto tutte le capacità acquisite nel tempo. Un ruolo nuovo, molto più snello. Negli anni Novanta nella nostra Ambasciata romana c’erano 17 funzionari, oggi siamo quasi la metà”.
Lei ha avuto modo di lavorare in America, sempre in diplomazia ed ora in Italia. Differenze?
“La società americana è molto aperta, i contatti più accessibili. In Europa resiste la tradizione con atteggiamenti che appartengono al passato. Siamo divisi nei nostri ruoli sociali, manteniamo le distanze. In America, con un’idea nuova, è possibile operare molto più facilmente ed in modo più immediato di quanto si possa fare nel Vecchio continente. Anche se le cose stanno cambiando in fretta, ce lo impone l’incalzare del tempo e della modernità”.
Tra i tanti incontri di questi primi mesi anche quello con i croati molisani, com’è stato?
“Un’esperienza molto particolare, ho incontrato gente che vive isolata, mantenendo le proprie tradizioni, usi e costumi. Ho visto il loro presepe vivente, a San Felice, molto affascinante con la partecipazione di tutto il paese. Si tratta di una ricchezza che va mantenuta e sostenuta in ogni modo. Sono perfettamente integrati nella società italiana, si sentono a pieno titolo cittadini italiani, ma sono anche orgogliosi del loro passato e della lingua arcaica. Stiamo facendo uno sbaglio tentando di insegnare loro il croato moderno, credo che dovremmo essere noi ad imparare da loro la lingua originale, una specie di lotta tra neologismi e lingua storica”.
L’Italia oggi come percepisce la Croazia?
“Uno dei veicoli più importanti per far parlare di noi è il turismo che restituisce l’immagine di una realtà in evoluzione. Non più una terra remota, lontana, è la meta delle vacanze, della passione dei diportisti attratti dalle mille isole della costa. Un contributo importante viene anche dai mass media che sono spesso presenti sulle tematiche che ci riguardano. Rispetto agli inizi del mio lavoro, alcuni decenni fa, diciamo che la percezione è migliorata notevolmente”.
Perché è ancora così difficile far capire agli altri che gli Italiani non sono arrivati in Istria, Fiume e Dalmazia con il fascismo ma sono lì da sempre?
“È frutto dei pregiudizi e degli stereotipi che sono stati usati per scopi politici. L’importante è scoprire oggi che qui vivevano popolazioni che hanno prodotto ricchezza, che ci hanno lasciato segni tangibili della loro presenza, che fanno parte della realtà, del quotidiano. Noi che viviamo sulle sponde di questo mare Adriatico dobbiamo considerarlo un mare che unisce nelle nostre diversità. Facciamo un esempio: quando si parla di cucina croata, che cosa s’intende? Contiene tre aspetti diversi: la cucina mitteleuropea (un po’ austriaca un po’ ungherese), quella balcanica (dell’agnello, i cevapcici) e quella mediterranea adriatica dell’olio e della vite, della pasta e del riso. Identità diverse che si sovrappongono e che vanno valorizzate nella loro specificità per sentirci più ricchi in quest’Europa”.
Qual è il progetto che le sta più a cuore e che vorrebbe realizzare durante la sua permanenza a Roma?
“Il più ambizioso riguarda la comprensione reciproca tra i due popoli, vorrei far conoscere la Croazia alle nuove generazioni, ma nello stesso tempo vorrei che dall’altra parte cadessero quei pregiudizi verso gli Italiani in Croazia e verso i Croati o gli Slavi in Italia. Realtà che oggi svolgono un ruolo fondamentale. E poi vorrei che si realizzasse anche il ricongiungimento degli esuli alla loro terra. Quando ciò sarà possibile, allora potremo sentirci più persuasi e felici”.
È scoppiato un temporale con lampi e tuoni che ha scosso Roma in una fredda giornata di febbraio. La prassi vorrebbe succedesse solo d’estate, con l’afa e il sole d’agosto. Chiaramente la meteorologia ha deciso di prendere un nuovo corso. Salutiamo l’Ambasciatore soddisfatto alla notizia che i fiumani terranno per la prima volta il loro incontro Mondiale a giugno a Fiume. Non cambia solo il tempo, anche il mondo vuole fare la sua parte.
Come Ambasciatore, lei ha avuto modo di incontrare il presidente Napolitano, vi siete detti diverse cose, constatando che il livello dei rapporti tra Italia e Croazia è già ottimo, ma con nodi ancora da risolvere. Quali?
“Solitamente si dice che i rapporti sono ottimi, ma vanno migliorati. È un curioso paradosso che ci indica però la strada da percorrere. Il Presidente Napolitano ha dato un grande impulso nell’evoluzione dei rapporti tra i nostri Paesi per cui confidiamo nel fatto che i futuri presidenti vogliano far tesoro dei successi raggiunti impegnandosi a sviluppare ulteriormente queste relazioni che definirei senz’altro molto amichevoli. I nodi da risolvere? In primo luogo la restituzione dei beni nazionalizzati. Un nodo che va risolto in Croazia, il governo in effetti si accinge a farlo con una legge sulla restituzione che prevede la parificazione dei cittadini stranieri a quelli croati in materia di restituzione. Il che significa risolvere le richieste – sono 1.036 quelle depositate dai cittadini italiani – di restituzione dei beni nazionalizzati. Qualcosa si è tentato di risolvere a livello regionale senza i risultati sperati, l’approccio non è dei migliori per tutta una serie di intoppi burocratici amministrativi.
Ecco perché bisogna farlo con una nuova legge chiara, a livello nazionale che non lasci spazio ad interpretazioni di parte. Quando sono partito per il mio nuovo incarico si stava già discutendo della prima bozza di questo documento, speriamo che l’iter necessario si chiuda quanto prima. La Legge si chiama proprio “Legge sui cambiamenti e le aggiunte alla legge sulla denazionalizzazione dei beni requisiti durante il periodo di governo comunista jugoslavo” (Zakon o izmjenama i dopunama zakona o denacionalizaciji imovine oduzete za vrijeme jugoslavenske komunističke vladavine). Credo che la soluzione di questo problema darà un ulteriore grande impulso alla definizione dei rapporti tra i Paesi. Poi, naturalmente, ciò che noi vogliamo è che gli esuli e tutti coloro che hanno sofferto negli anni del dopoguerra, sentano la Croazia come la loro terra, la propria casa, che ritornino, che investano e ci vivano”.
Crede che sarebbe opportuna una legge inversa a quella italiana che ha concesso la cittadinanza agli appartenenti alla Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia? Che favorisca quindi i discendenti degli esuli?
“Sarà l’obiettivo di un prossimo confronto tra Italia e Croazia. Abbiamo firmato con l’Italia un Memorandum d’intesa sullo sviluppo delle relazioni bilaterali che per due anni è rimasto fermo a causa delle crisi dei governi, sia croato con le elezioni sia poi italiano con la creazione del governo tecnico. Di conseguenza non si sono riuniti i comitati interministeriali, ma il tutto dovrebbe riprendere a breve e c’è una riflessione in questo senso, intendo in materia di cittadinanza. Per cui, dopo le elezioni questo sarà il nostro primo impegno. Poi c’è un’altra cosa molto importante. Quest’estate il Parlamento ha ratificato gli accordi culturali tra Italia e Croazia, che per noi sono fondamentali, perché significa riconoscere alle minoranze che già hanno la propria autonomia linguistica e nazionale, non solo un pieno appoggio da parte dello Stato nel quale vivono, ma anche lo sviluppo di programmi culturali, a livello capillare di istituzioni, in modo diretto. Sarebbe possibile avviare gemellaggi tra istituzioni culturali. Una cosa molto utile che bisogna mettere in atto quanto prima”.
A chi spetterebbe l’avvio di tale rete di collegamenti?
“Ne è stata incaricata una Commissione bilaterale con diramazioni a livello regionale di commissioni di esperti della materia e rappresentanti delle amministrazioni locali. Il tutto al fine di implementare ciò che già esiste con maggiore facilità di decisione e movimento. Dopo le elezioni si potrà partire nella concretizzazione di questo processo. E poi, l’altro grande tema è quello del Forum economico italo-croato che vorremmo attivare proprio alla vigilia dell’entrata della Croazia nell’Unione Europea, a livello ministeriale, di Camere di Commercio e di realtà imprenditoriali, quindi a vari livelli (dalla Confindustria alle altre realtà) per creare un nucleo, un pool al servizio degli imprenditori italiani che vogliono operare in Croazia e viceversa di imprenditori croati che vogliono espandersi sul mercato italiano. Va da sé che ciò coinvolgerebbe il mondo bancario e quant’altro. Oggi per la Croazia, l’Italia è il primo partner economico, il primo ad aver inoltre ratificato, tra gli Stati fondatori dell’UE, l’accordo per permettere l’allargamento dell’UE alla Croazia”.
Rosanna Turcinovich Giuricin
“la Voce del Popolo” 23 febbraio 2013
L’ambasciatore croato a Roma, Damir Grubiša, durante l’incontro col Presidente Napolitano
(foto Quirinale)