È stato affidato a Lucio Toth, vicepresidente della FederEsuli e presidente onoraio ANVGD, il compito di porgere a nome delle associazioni giuliano-dalmate il saluto ai docenti partecipanti al quarto Seminario sul confine orientale MIUR-AssoEsuli svoltosi a Trieste dal 14 al 16 marzo scorso. Lo riproduciamo integralmente.
Cari docenti,
Vi potrà sembrare strano che un anziano Vi venga a parlare di cose avvenute 60 o 70 anni fa, quando lui era bambino. E infatti non è solo di questo che Vi parlerò. Vi parlerò di oggi e del vostro domani. « Chi crede che la vita sia soltanto nel domani e trascura la memoria, toglie il nervo al proprio sviluppo» Scriveva Giani Stuparich, lo scrittore di Lussino, socialista, volontario nella Grande Guerra, che non perdonò negli anni bui del secondo dopoguerra « di aver permesso lo strazio di Zara, di Fiume, il suicidio di Pola e la tragedia di tutte le nostre belle città, italianissime fin nelle pietre».
Per questo sono qui a portare il saluto delle associazioni degli Esuli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia. Vi spiegherò le loro varie denominazioni perchè in esse è il segno della loro origine, fatta di speranza e di disperazione insieme.
Quando gli alberi vengono squassati da una tempesta, anzi sradicati dalla terra, gli uccelli fuggono dai nidi e vanno a fondare un nido nuovo, di qua e di là, dove li porta il vento. Per tenersi uniti e non perdere l’anima si scambiano segnali nella lingua che conoscono, come se quella lingua, quel dialetto anzi – che per noi è l’istro-veneto e il dalmato-veneto – conservasse il calore e il sapore del nido che hanno lasciato. Cioè delle loro case, delle loro città e paesi, delle chiese dove si sono sposati o sono stati battezzati.
Chiese e strade che per benevolenza del destino stanno ancorà là, malgrado le devastazioni delle guerre. Quelle « insenature di mare turchino che penetrano nel verde della campagna» (Stuparich) e che sono rimaste nel nostro sguardo perché introvabili in qualsiasi altra parte del mondo.
«Le mura va zoso, ma el sì restarà…» Diceva una canzonetta popolare dei nostri nonni ai tempi dell’Austria-Ungheria. Per dire che qualsiasi cosa fosse successa saremmo rimasti per sempre italiani.
Comincio dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, di cui sono stato presidente e alla quale ero iscritto da ragazzo. Nacque negli anni Cinquanta riunendo i primi Comitati giuliani e dalmati che si erano venuti costituendo in varie città italiane già nell’estate del 1945, quando tutta la Venezia Giulia di allora (che si estendeva oltre dieci volte la Venezia Giulia di oggi) era sotto occupazione straniera: iugoslava o anglo-americana. Nel distintivo dell’ANVGD sono infatti rappresentati gli stemmi non solo di Pola, Fiume e Zara, province poi consegnate alla ex-Iugoslavia, ma anche di Gorizia e Trieste che la Repubblica Italiana è riuscita a recuperare.
I profughi in quegli anni avevano bisogno soprattutto di assistenza materiale. Ma le associazioni si impegnarono anche a livello politico per difendere per quanto possibile la sovranità italiana su quei territori. Ne facevano parte anche ex-combattenti della guerra di Liberazione o della Repubblica Sociale Italiana, uniti dal fine comune di difendere l’italianità di quelle terre, là dove la storia e la composizione etnica della popolazione lo consentiva.
Questa infatti è una regione plurale abitata da secoli da popoli di lingua e origine diversa.
I più dei nostri profughi trovarono accoglienza nei «campi di raccolta» sparsi per tutta Italia, dalla Sicilia alla Sardegna, al Piemonte. Ecco il perché di tanti comitati della ANVGD, da Napoli a Venezia, che copriva quindi i fuggiaschi da tutte le province investite dall’esodo, e dell’attuale presenza un po’ ovunque degli iscritti di tutte le nostre associazioni .
L’Associazione delle Comunità Istriane è nata proprio per tutelare i diritti e le aspirazioni dei profughi delle cittadine e paesi dell’Istria dove gli italiani erano maggioritari o comunque fortemente presenti (Pirano, Capodistria, Parenzo, Rovigno, Pisino, Montona, Abbazia, Albona, ecc.). Si considera in qualche modo erede del CLN dell’Istria, il comitato che rappresentava la Resistenza italiana di orientamento socialista, liberale e cattolico, di cui conserva i preziosi archivi. La maggior parte dei suoi iscritti vive oggi a Trieste.
L’Unione degli Istriani sorse con gli stessi scopi e nella stessa epoca a Trieste con più forti connotazioni nazionali, in contrasto spesso con gli indirizzi dei governi italiani del dopoguerra, che venivano considerati, a torto o a ragione – più a ragione che a torto – troppo condiscendenti verso le potenze alleate, uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale e che continueranno a condizionare le vicende e la collocazione internazionale del nostro Paese.
I Tre Liberi Comuni in Esilio – così si vollero chiamare sul modello della Francia Libera di De Gaulle in esilio a Londra durante l’occupazione tedesca – si sono formati negli anni Sessanta con lo scopo preciso di tenere uniti i cittadini dei tre capoluoghi delle province perdute, da cui provenivano i loro iscritti: Pola, Fiume e Zara. Quest’ultimo ha aggiunto il nome di Associazione Dalmati Italiani nel Mondo (ADIM) per poter rappresentare tutti gli italiani esuli dalla Dalmazia. La loro funzione storica si è rivelata preziosa perché attraverso i raduni annuali hanno tenuto uniti per decenni i cittadini italiani di quelle antiche città, conservandone le usanze e il dialetto, malgrado l’estrema lontananza dei loro iscritti, dal nord al sud d’Italia, alle Americhe, all’Australia, al Canadà, dove decine di migliaia di profughi migrarono in quegli anni di povertà e miseria.
Altri sodalizi di esuli risorsero negli anni del dopoguerra, come le Società e le Deputazioni di Storia Patria o l’Associazione Nazionale Dalmata, o se ne formarono di nuovi, contribuendo ad approfondire a livello scientifico le vicende storiche e artistiche dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Così la Società di Studi Fiumani a Roma, il Circolo Istria e la Fondazione Rustia Traine a Trieste e Coordinamento Adriatico, sorto a Bologna venti anni fa in ambito universitario.
Siamo qui raccolti – con la collaborazione del Ministero per l’Istruzione l’Università e la Ricerca, nel quadro del Tavolo di coordinamento istituito dalla Presidenza del Consiglio – non per parlarvi soltanto di noi, cioè della sorte di noi esuli, ma per farvi conoscere tutta questa strana regione di frontiera che va dalle Alpi Giulie (Julijske Alpe in sloveno, Julische Alpen in tedesco) alla pianura friulana, come è stata nel tempo e come è oggi.
Vaste programme, direte. Ma affascinante, perché vi consentirà di aprire una finestra che per la maggior parte degli italiani è rimasta chiusa: la realtà di una regione plurale dove hanno convissuto per secoli culture diverse: l’italiana, le due culture slave croata e slovena, quella tedesca e anche quella ungherese.
La tragedia delle Foibe, dove alla fine della II guerra mondiale sono stati precipitati migliaia di italiani di queste terre e il drammatico Esodo che ne seguì, con mezzi spesso fortunosi e sotto la minaccia di armi nemiche, diventano l’occasione per esplorare una storia millenaria dell’Adriatico orientale e dei popoli che vi si affacciano. Perché soltanto questa lunga storia, che non comincia nel 1918 o nel 1941, ma ha radici lontane, può farci capire quella tragedia e quel dramma e insieme aprirci con generosa e curiosa intelligenza alla storia di «altri», di chi per l’insorgere di ideologie esclusive sono diventati nostri nemici per oltre un secolo. Ma il «secolo breve», irto di odi e rancori tra popoli europei, è alle nostre spalle. Dobbiamo guardare avanti al presente e all’avvenire. L’uno e l’altro ci resterebbero indecifrabili senza conoscere il passato. Come si può costruire una casa comune se non si conosce il terreno dove deve sorgere e le fondamenta stesse di una cultura comune, pur nelle sue profonde diversità ?
È una visione provinciale guardare solo dentro i nostri confini politici, dimenticando le dimensioni europee dei problemi, le difficoltà che ne derivano ma anche i vantaggi che ne possiamo trarre.
Un popolo senza memoria è un popolo senza identità e senza futuro, perché questo si costruisce soltanto su una conoscenza adeguata e corretta del proprio passato. Come ha ribadito più volte il Presidente della Repubblica parlando delle Foibe e del nostro Esodo.
La vicenda complessa di questa regione può essere esaltante o tragica. Ma è una storia che sta al centro dei problemi dell’Europa contemporanea, dall’Ottocento al Novecento fino ai nostri giorni, che ne hanno ereditato i nodi irrisolti.
È un laboratorio di esperienze che matura la conoscenza di noi stessi, in quanto italiani ed europei, delle colpe altrui e delle nostre. La posizione geografica dell’Italia la colloca tra il continente europeo e il Mediterraneo e questa regione in particolare è la porta verso il nord germanico, l’oriente slavo e il sud greco. Perchè è qui, tra Aquileia e Venezia, Fiume e Trieste, Zara e Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik) che queste anime d’Europa si sono incontrate nel tempo. I loro segni sono nelle pietre delle nostre città, nel loro tessuto urbano, nel paesaggio, nella loro arte. Sono negli archivi religiosi e civili, nei mosaici, negli affreschi, nei quadri delle chiese.
La pluralità di queste terre, dal Friuli al Carso, al Quarnaro, alle Bocche di Cattaro, si manifestava e ancora si manifesta in tutte le forme della vita quotidiana, dal cibo alle canzoni, che sono le espressioni primarie del sentire di un popolo e ne rivelano i tratti comuni. Certamente una prevalenza della cultura italiana, nelle arti, nelle lettere e nelle scienze non può essere negata, con una sorta di damnatio memoriae che offende l’intelligenza, prima ancora di ferire il cuore di chi di quella cultura è legittimo erede.
Ma essa non derivava da una supposta superiorità culturale. Nessun popolo e nessuna lingua è superiore o inferiore, perchè non sono che un diverso modo di sentire e di vivere valori comuni all’animo umano. Nasceva dal fatto oggettivo di una vicinanza geografica che poneva la costa orientale adriatica in contatto diretto con un paese, come l’Italia, più esteso e abitato e collegato a sua volta all’area europea occidentale, che dal Medio Evo in poi è stata il fulcro della civiltà occidentale. Un paese che aveva espresso in prima persona Umanesimo e Rinascimento ed era stato poi interessato dall’Illuminismo di origine inglese e francese. Era naturale quindi che letterati, poeti, artisti, scienziati dell’Adriatico orientale si servissero della lingua italiana come in passato si erano serviti di quella latina e dalla cultura italiana traessero idee e ispirazione. Ed era naturale che la popolazione autoctona di quelle terre sia passata dal latino popolare alle lingue romanze e poi, con l’influenza veneziana, alla lingua italiana nella sua variante veneta. Convivendo insieme con popolazioni di lingua slava, che da secoli vi si erano insediate e determinando stratificazioni sociali e connotazioni etniche diverse da luogo a luogo nel rapporto tra maggioranze e minoranze, come vi verrà obiettivamente spiegato.
Nessuna sorpresa quindi che un Francesco Patrizi di Cherso o un De Dominis di Arbe, i due Laurana di Zara, Giorgio Orsini il Dalmatico o i musicisti istriani Giuseppe Tartini e Luigi Dallapiccola siano espressioni alte della cultura italiana. Così come l’opera di Nicolò Tommaseo sia un passaggio fondante nella definizione della nostra lingua.
La capacità di integrazione delle nostre città ha trasformato per secoli in istriani, in fiumani e in dalmati italiani chiunque venisse a vivere sui nostri lidi, quale che ne fosse l’origine. Così non deve sorprendere che patrioti italiani si chiamassero Scipio Slataper, Gianni e Carlo Stuparich o Guglielmo Oberdank e che lo scrittore Ettore Schmitz si facesse chiamare Italo Svevo. Nè può sorprendere che personalità di rilievo di queste terre facciano parte integrante della vita italiana, dalle attività produttive allo sport, allo spettacolo.
Le attrici Emma ed Irma Gramatica, Alida Valli, Elsa Merlini, Laura Antonelli ne sono esempi. Come i registi Giorgio Strehler e Franco Giraldi o il critico cinematografico Tullio Kezich o cantautori come Sergio Endrigo, Teddy Reno, Giorgio Gaber e Lelio Luttazzi. Sportivi come Nereo Rocco, Abdon Pamich, Nino Benvenuti, Dino Zoff. O gli stilisti Ottavio Missoni e Mila Schön o nel campo della letteratura Fulvio Tomizza, Claudio Magris, Enzo Bettiza, Susanna Tamaro, continuatori di una tradizione che viene chiamata «triestina» per la modernità espressiva di un Umberto Saba, di Biagio Marin, di Antonio Quarantotti Gambini, di Carlo Michelstädter, che hanno immesso fermenti e inquietudini nuove nella cultura italiana, saldandola a quella della vicina Mitteleuropa, ma anche a quella anglosassone, per l’amore verso questi luoghi che avevano non solo i tedeschi Rilke o Ernst Jünger, ma anche un James Jojce o un Ernest Hemingway.
Oggi siamo qui, in questa città, in questa terra tra l’alpe e il mare, per conoscerle e contuinuare ad amarle come una parte di noi stessi, della nostra identità di italiani e di europei. «Una città – diceva Stuparich di Trieste – che ha la possibilità di una cultura nuova, moderna, che sarà viva nell’Europa di domani, fusione di civiltà, di sud e di nord, d’occidente e d’oriente». E mi fa piacere che sia tra noi per la prima volta una delegazione dell’AIE (Associazione Italiana Editori), per darci i giusti consigli per questo compito… immane.
In questi primi anni del XXI secolo l’integrazione in un’Europa unita dovrebbe far superare contrapposizioni scioviniste e nostalgie totalitarie anacronistiche, in nome di valori comuni. È a questo che siamo impegnati.
Auguro a voi di saper trasmettere ai vostri figli e ai figli degli immigrati, che saranno anch’essi gli italiani di domani, quei segni della nostra identità nazionale, come siamo stati capaci di trasmetterli noi.
Lucio Toth