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«Magazzino 18» la verità, il dramma (Voce del Popolo 22mar13)

Mobili, libri, vestiti, giocattoli, oggetti per la casa, tutti numerati e siglati. Un vero e proprio santuario delle cose dimenticate nella zona del porto franco di Trieste. Si presenta così il “Magazzino 18”, che raccoglie le masserizie depositate frettolosamente e mai recuperate dagli esuli istriano-dalmati nel secondo dopoguerra. Recentemente il triste luogo ha prestato il nome a un’emozionante brano di Simone Cristicchi, uno dei più apprezzati cantautori italiani contemporanei, la cui sensibilità l’ha portato a confrontarsi con una pagina dimenticata dalla narrazione pubblica, quella dell’esodo del popolo giuliano-dalmata.

Ora “Magazzino 18” sarà anche uno spettacolo teatrale e musicale sul dramma istriano, che debutterà il 22 ottobre prossimo al Teatro Stabile di Trieste. Un progetto teatrale che nasce dall’incontro artistico tra Simone Cristicchi e Jan Bernas, giornalista e storico di origini polacche, autore del fortunato saggio “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” (Mursia 2010, realizzato con la collaborazione della Sede nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). In questo lavoro Bernas ha raccolto sia le testimonianze degli esuli giuliano-dalmati sia quelle degli altri esuli.

Simone Cristicchi è rimasto colpito dai racconti e dalle vicissitudini degli istriani, fiumani e dalmati. Dopo questo primo impatto emotivo, dal quale il cantautore romano ha evidentemente tratto uno stimolo ad approfondire l’argomento, Cristicchi mi ha contattato proponendomi di collaborare al suo nuovo progetto teatrale. Un progetto che – ammette Bernas – è come un sogno che si realizza, perché dalle pagine scritte si arriva a un altro strumento di comunicazione, come quello del teatro. Un’arte attraverso la quale si possono raggiungere molte più persone”.

A Bernas abbiamo chiesto di anticiparci alcuni contenuti dello spettacolo “Magazzino 18”, in scena al Rossetti di Trieste, quale allestimento del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, per la regia di Antonio Calenda.

Il progetto, in qualche modo, ripercorrerà la struttura del mio libro. Ci sarà chiaramente un protagonista che, come Cicerone, condurrà gli spettatori attraverso le vicende e le testimonianze degli esuli e dei rimasti. L’idea è di farle narrare a un funzionario del Ministero degli Affari esteri italiani, completamente estraneo alle vicende storiche dell’Alto Adriatico. Il funzionario viene inviato da Roma a Trieste per compiere una sorta d’inventario delle masserizie abbandonate dagli esuli nel “Magazzino 18”. E qui, attraverso la catalogazione dei beni lasciati, riscopre le storie del popolo cui sono appartenuti. Non solo i drammi delle foibe e i fatti degli esuli, ma anche le vicende di coloro che scelsero di rimanere e di quelli che furono costretti a restare, diventando così dei veri estranei nella propria terra natia”.

Come si è avvicinato a questa nostra storia?

“Il primo incontro che ho avuto con l’epopea dell’esodo giuliano-dalmata risale ai tempi del Liceo. Nel corso di una lezione di storia chiesi alla professoressa che cosa spinse tutte quelle persone a scegliere di lasciare la propria terra a conflitto concluso. Lei rispose, in modo piuttosto sprezzante, che ‘erano tutti fascisti in fuga’. Quest’affermazione mi colse impreparato a controbattere la tesi della professoressa. Ma l’episodio mi lasciò un vuoto interiore che solo dopo diversi anni riuscii a rimarginare grazie allo studio, all’approfondimento della complessa questione del confine orientale e l’esperienza diretta maturata nei miei viaggi in Istria e in Dalmazia. Lo spettacolo e il libro sono intesi come degli strumenti con i quali ricostruire la memoria del popolo giuliano dalmata, ma anche per dare risposta a tutti coloro che cercano la verità e che sono stanchi dell’uso strumentale e politico della memoria. In definitiva, sia ‘Ci chiamavano fascisti…’ sia ‘Magazzino 18’, nascono come opere di educazione alla memoria. Un ponte ideale tra italiani divisi dalla storia, ma pronti finalmente a riconoscersi in una memoria e in un senso d’appartenenza comune”.

Polemiche sul libro?

Con gli apprezzamenti sono arrivate inevitabilmente anche delle contestazioni, per lo più da ristrette sfere della sinistra, che continuano a sostenere che tutto quello che è successo al popolo giuliano-dalmata è stata semplicemente una ripercussione delle nefandezze compiute dai soldati italiani in tutta la Jugoslavia. In tutta sincerità, sono polemiche che mi fanno sorridere. Le vicende storiche non sono mai bianche o nere. La memoria deve condividere e soprattutto esprimere i punti di vista delle persone che hanno sofferto”.

Progetti futuri?

Il grosso delle mie forze è concentrato ora sull’allestimento dello spettacolo. Tuttavia, essendo la fotografia una mia grande passione, abbiamo pensato di realizzare una mostra fotografica itinerante sul “Magazzino 18”, che accompagni lo spettacolo nei teatri d’Italia e anche in Istria, dove vorremmo portare la rappresentazione. Un altro modo per far entrare lo spettatore, anche visivamente, nella complessa storia del popolo giuliano dalmata”.

Gianfranco Miksa
“la Voce del Popolo” 22 marzo 2013

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