Quella delle foibe fu una tragedia italianissima. Italianissima non solo perché le vittime erano italiane, ma perché tutto italiano fu il singolare atteggiamento di omertà e disprezzo che molti esuli dovettero affrontare una volta sbarcati sulla sponda occidentale dell’Adriatico.
Artefice della cortina di silenzio che si abbassò sulle epurazioni e sulle violenze compiute in Istria e Dalmazia fu il Partito comunista italiano. Emblematico quanto scriveva l’Unità nel Novembre 1946 in merito ai fuggiaschi che giungevano nei porti italiani:
“Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali”.
Ostracismo unito a mistificazione della realtà che prese vita non solo sulle colonne degli organi di partito, bensì anche nelle parole dei dirigenti e de militanti comunisti, come nel caso di un sindacalista ligure artefice di un ‘curioso’ parallelismo: “in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani”.
Una responsabilità quella del partito di Togliatti venuta a galla neanche dopo la morte de Il Migliore: la sinistra nostrana, malgrado la maturazione nel tempo di una generale disillusione nei confronti del socialismo reale, ha continuato a negare o a minimizzare l’esodo fino a tempi non sospetti. Solo la legge 92 del Marzo 2004 e le parole spese da Napolitano tre anni dopo sull’azione criminale di Tito: “(…) un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una ‘pulizia etnica’” aprirono spiragli sulla vicenda delle Foibe, permettendo a molti ignari nostri connazionali di venire a conoscenza di quella strage ‘minore’ che i media e gli storici avevano per anni eluso, una strage lasciata a coprirsi di polvere nei tanti “armadi della vergogna” italiani e jugoslavi.
Se nel corso di mezzo secolo Giorgio Napolitano è stato capace di compiere un mea culpa, riconoscendo di aver preso un abbaglio nello scrivere, nel 1956, che “in Ungheria l’Urss porta la pace”, la stessa cosa non è accaduta per le frange più dure della sinistra e per l’ANPI, l’associazione dei partigiani (ex garibaldini) che continua a difendere una versione della pulizia etnica titina ormai smentita dalla storia e dalle fonti.
Qualcuno obietterà: d’accordo, si tratta forse di anziani iscritti cresciuti con convinzioni difficili da abbandonare in vecchiaia. Il problema è che l’ANPI è oggi tenuto in vita più da adolescenti e giovani adulti che non da reduci della guerra partigiana, ragazzi quindi che, anziché aprire le proprie menti al confronto e alla discussione di documenti e testimonianze, preferiscono ricordare le Foibe come una giusta punizione inflitta dal popolo jugoslavo ai criminali fascisti.
Il ricorso ad una retorica talvolta al limite del fiabesco, l’idealizzazione (mescolata all’ideologia) della guerra anti fascista, lo spettro ‘revisionista’ (vero spauracchio della sinistra italiana) sono piccoli tarli che intaccano il senso critico e l’obiettività degli studenti che nelle piazze e nei cortei sventolano fieri la bandiera della Repubblica popolare di Jugoslavia, spendendo parole di elogio e di ammirazione per quel maresciallo croato la cui furia si scagliò contro la sua gente (150 mila croati uccisi), contro gli italiani e contro i domobranci sloveni.
Anche i comunisti, slavi e non, non ebbero vita facile nella Jugoslavia titina: il lager di Goli Otok ospiterà , dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Urss, i militanti e i dirigenti di dichiarata fede stalinista, così come centinaia di idealisti occidentali che ritenevano Belgrado paradiso dei lavoratori. Molti di loro, al rientro nei paesi d’origine, subirono lo stesso trattamento riservato anni prima ai giuliano dalmati anzi, per meglio dire, provarono sulla pelle la medesima umiliazione frustrazione che avevano provocato quando picchettavano gli sbarchi dei “banditi giuliani”.
Marco Petrelli
Agenzia Stampa Italia 6 aprile 2013