Il ticchettio della macchina per scrivere era intervallato da brevi risatine, quasi dei singulti. Rumori che provenivano da una delle stanze al secondo piano della redazione del “Piccolo”, che allora si trovava in via Silvio Pellico. Il secondo piano era quello delle stanze più piccole, ovattate, ben diverse da quelle del primo piano, grandi cameroni con i giornalisti ammucchiati, e da dove si accedeva direttamente alla tipografia, enorme, scura, dalle cui pareti rimbalzava il rumore delle linotypes.
Lassù tutto era più tranquillo, silenzioso. Lì era il pensatoio dove Lino Carpinteri e Mariano Faraguna elaboravano la loro Cittadella. La stanza era quella di Lino, che si occupava anche delle Segnalazioni, mentre Mariano, capo servizio dei “Telegrammi” (si chiamava così con un termine antiquato il settore degli interni ed esteri) condivideva con i redattori uno degli stanzoni al piano di sotto.
Nel pensatoio, Lino era seduto alla scrivania e batteva a macchina forsennatamente, Mariano era seduto, quasi steso su una poltrona di pelle, sempre elegantissimo nei suoi completi con il panciotto, anche d’estate. Lino non badava tanto all’eleganza, badava al concreto, anche nel quotidiano lavoro in tandem con il suo amico e sodale Mariano. Se quest’ultimo sparava le battute, chi le limava, le arricchiva, le aggiustava era Lino, che non mancava peraltro di crearne. La risatina significava che la battuta funzionava, che il concetto era stato espresso in modo appropriato ed efficace.
Quei brevi singulti erano il placet, erano il via libera che hanno regalato a generazioni di triestini articoli, dialoghi, commenti, commedie, trasmissioni radiofoniche, battute che sono rimaste nel lessico della città. Lino, insieme a Mariano, ha creato un linguaggio, ha creato un mondo, ha fatto sognare, divertire, ridere, ma anche riflettere. Ha interpretato in maniera magistrale un territorio, ne ha colto gli umori profondi, le nostalgie, le speranze, i dubbi, i tormenti, il male di vivere, lo spirito dissacratore, le profonde contraddizioni. Lui, che da studente liceale e universitario, si era battuto per Trieste italiana (si era negli anni tormentati del dopoguerra, dell’occupazione anglo-americana) era diventato l’interprete più perfetto delle nostalgie asburgiche con le Maldobrìe, che offrono un punto di vista alternativo sulla difficile questione dell’identità culturale di Trieste e del suo entroterra.
Le storie narrate nelle Maldobrìe evocano la vecchia Trieste imperiale e mettono in evidenza, attraverso personaggi ordinari, il difficile eppure ineluttabile rapporto con la cultura austro-ungarica. Il passato diventa uno specchio in cui, attraverso piccole vicende quotidiane, viene riesaminato un aspetto centrale ed insopprimibile dell’identità triestina. Bortolo e siora Nina, i vari comandanti Nacinovich, i vari Barba Nane sono gli archetipi dell’universo del povero nostro Franz, di quell’Austria, paese ordinato, mitizzati, ma con una salutare dose di ironia, nei successivi tempi grami. Un mondo inventato, come fu inventato il linguaggio da Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, ambedue classe 1924.
Artefici di un sodalizio culturale che dal 1945 al 2001, morte di Faraguna, ha prodotto una quantità considerevolissima di opere. Un sodalizio avviato con il Caleidoscopio, giornale umoristico giovanile, nato appena ristabilita la libertà di stampa nella nostra città, continuato con la Cittadella, avviata come settimanale umoristico autonomo e poi ospitata nell’edizione del lunedì del Piccolo. Quanti modi di dire, quante espressioni, quanti witz sono stati partoriti nella rubrica “Cosa dirà le gente” che ha fatto diventare la mitica Debegnac la vicina tipica e la frase “mi credo che i scrivi ’sta roba solo per insempiar la gente” una frase le nostro lessico quotidiano.
Per inciso va detto che fu Tullio Kezich, indimenticato critico cinematografico e scrittore nostro, a sentire l’espressione davanti a un’edicola e a riferirla ai due, che se ne appropriarono e la resero famosa. Come importante è stato l’aspetto politico del settimanale, in cui Carpinteri e Faraguna, insieme ai loro collaboratori, in gran parte le più prestigiose firme del Piccolo, hanno seguito la linea liberal nazionale che era quella originaria del quotidiano.
Senza risparmiare critiche anche feroci alla borghesia triestina inetta, conservatrice e disincantata, sublimate dalle splendide vignette di Kollmann e José, e pure ai governi, anche quelli che sentivano affini, nella difesa degli interessi di Trieste. Una linea politica coerente che portò al divorzio tra il settimanale e il quotidiano agli inizi del 2000. L’anno dopo si spense Faraguna, mentre Carpinteri continuò la sua preziosa collaborazione con il Piccolo. Occupandosi soprattutto del dialetto triestino, con la rubrica che riecheggiava la fortunata trasmissione “Processo alle parole”. Carpinteri e Faraguna furono anche fecondi autori radiofonici, cito per tutti “Il Campanon” trasmissione di cui ancor oggi si parla.
E fecondi autori teatrali con una serie di fortunate commedie quali “Un biglietto da mille corone” (1987), “Marinaresca” (1988), “Co’ ierimo putei” (1989), “Sette sedie di paglia di Vienna” (1991), “Putei e putele” (1992), “Pronto, mama…?” (1993) e “Locanda Grande” (1994); oltre a svariate raccolte di adattamenti delle Maldobrìe, sia come drammatizzazioni che come monologhi. Sia Le Maldobrie, sia le opere teatrali, sia le rubriche “Cosa dirà la gente” e “Processo alle parole” sono tutte state riedite dalla casa editrice Mgs Press.
Nella sua rubrica sul Piccolo in questi dodici anni, Carpinteri ha proseguito le sue certosine ricerche dei lemmi dialettali perché come ebbe a dichiarare lui stesso, citando Ramon Gomez de la Serna: «Ogni parola ha un nocciolo non commestibile: la sua etimologia».
Carpinteri ha trattato il nostro dialetto dunque come argilla alla quale ha dato il soffio vitale, non risulti blasfemo il riferimento, ma gli autori sono dei piccoli dei perchè creano. Un materiale, sia esso argilla o sia esso marmo, che l’artista deve ben conoscere per poter realizzare l’opera e, se non è soddisfatto del materiale che trova, l’artista, in questo caso lo scrittore, se lo può inventare.
Carpinteri ha fatto l’uno e l’altro.
E le parole da lui processate continueranno a tenerci compagnia, anche adesso che lui se n’è andato, a 89 anni. Peccato che non gli sia riuscito di vivere fino ai 102, come sua madre, e come avrebbe desiderato, però a condizione di non essere di peso a nessuno. Ieri è morto alle soglie dei novant’anni.
Pierluigi Sabatti
“Il Piccolo” 18 maggio 2013