La sua pagina su Wikipedia lo ricorda, in ben 10 lingue diverse, come «il commissario di pubblica sicurezza che salvò dalla deportazione migliaia di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e fu per questo deportato egli stesso nel campo di concentramento di Dachau, dove morì». «Per le sue gesta, Giovanni Palatucci è Medaglia d’oro al merito civile, Giusto tra le nazioni per lo Yad Vashem (12 settembre 1990) e Servo di Dio per la Chiesa cattolica», precisa l’enciclopedia libera.
Ma a dar retta al crescente coro di storici e ricercatori che da anni studiano il più celebrato tra i «giusti» italiani, il mito di Palatucci non sarebbe altro che una truffa clamorosa orchestrata da amici e parenti del presunto eroe che si dice abbia salvato oltre 5.000 ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà. L’ipotesi di un salvataggio di massa da parte di Palatucci era già stata categoricamente esclusa dal Ministero degli Interni in un memorandum del luglio 1952 e successivamente dalla commissione dell’Istituto dei Giusti di Yad Vashem nel 1990. In una tavola rotonda organizzata dal Centro Primo Levi alla Casa Italiana Zerilli Merimò di New York, l’ex direttore di Yad Vashem Mordecai Paldiel ha spiegato che sotto la sua supervisione, nel 1990 Palatucci fu riconosciuto «giusto fra le nazioni» per aver aiutato «una sola donna», Elena Aschkenasy, nel 1940, e che la commissione «non ha rinvenuto alcuna prova né testimonianza che avesse prestato assistenza al di là di questo caso».
Eppure nel 1955 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane gli conferisce una decorazione e nel 1995 lo Stato italiano la Medaglia d’oro al merito civile. Durante la cerimonia ecumenica Giubilare del 7 maggio 2000, papa Giovanni Paolo II lo annovera tra i martiri del XX Secolo. Nel 2004 si conclude la fase diocesana del processo di canonizzazione con la proclamazione a Servo di Dio dell’eroe morto a Dachau nel ’45, all’età di 35 anni. Ma chi ha condotto la ricerca storica sulla quale si sono basati questi riconoscimenti? Come nasce il mito del «Schindler italiano»? Le biografie ufficiali – di cui l’ultima, Giovanni Palatucci: un giusto e martire cristiano di Antonio De Simone e Michele Bianco con la prefazione del Cardinale Camillo Ruini – parlano di migliaia di ebrei da lui inviati nel campo di internamento di Campagna dove sarebbero stati protetti dal Vescovo Giuseppe Maria Palatucci, zio di Giovanni. Il famigerato campo che proprio il vescovo, nel 1953, definì un «luogo di villeggiatura». «Impossibile», replica Anna Pizzuti, curatrice del database degli ebrei stranieri internati in Italia (www.annapizzuti.it), «Quaranta in tutto sono i fiumani internati a Campagna. Un terzo del gruppo finì ad Auschwitz».
Le biografie ricordano poi gli 800 reduci ebrei che nel 1939 si sarebbero clandestinamente imbarcati sul battello greco Agia Zoni che salpò da Fiume il 17 marzo 1939 diretto in Palestina e sarebbe stato allestito personalmente dall’eroico commissario. Ma dal diario della guida del gruppo conservato a Yad Vashem e dai documenti della capitaneria di porto raccolti presso l’Archivio di Stato, si scopre che fu un’operazione dell’Agenzia Ebraica di Zurigo, avvenuta sotto lo stretto controllo dei superiori di Palatucci che non solo innescarono un penoso processo di estorsione ma fecero respingere al confine i più bisognosi dei rifugiati, gli apolidi e i fuoriusciti da Dachau.
Dagli archivi si scopre che Palatucci fu funzionario di pubblica sicurezza presso la Questura di Fiume dal 1937 al 1944, dove era addetto all’ufficio stranieri e si occupò dei censimenti dei cittadini ebrei sulla cui base la Prefettura applicava le leggi razziali. Proprio a Fiume i censimenti furono condotti con una capillarità ineguagliabile e le leggi applicate con un accanimento che provocò proteste internazionali e la reazione dello stesso Ministero degli Interni. Secondo la monografia di Silva Bon Le Comunità ebraiche della Provincia italiana del Carnaro Fiume e Abbazia (1924-1945) e i dati raccolti nel Libro della Memoria di Liliana Picciotto, durante la breve reggenza di Palatucci la percentuale di ebrei deportati da Fiume fu tra le più alte d’Italia. L’affresco familiare recentemente pubblicato da Silvia Cuttin Ci sarebbe bastato mostra con lucidità e accuratezza l’esperienza tragica degli ebrei fiumani.
In Giovanni Palatucci, Una Giusta Memoria Marco Coslovich ricostruisce l’ambiguo profilo professionale di un vice commissario di polizia che appena trentenne giura fedeltà alla Repubblica di Salò. «Palatucci non fu mai questore di Fiume», rivela Coslovich, «ma vice commissario aggiunto sotto il controllo di superiori notoriamente antisemiti». Tutt’altro che in conflitto con essi, le carte mostrano che egli era considerato un funzionario modello. Definito «insostituibile» dal prefetto Testa, godeva appieno dei suoi favori. Tra aprile e inizio settembre 1944 fu reggente alle dirette dipendenze dei gerarchi di Salò Tullio Tamburini ed Eugenio Cerruti. Anche lo storico Michele Sarfatti nel programma tv La storia siamo noi dedicato a Palatucci, nel 2008 ha espresso dubbi sulla plausibilità di numeri sproporzionati rispetto a una comunità di poco più di un migliaio di persone che tra emigrazione e internamento era ridotta a poco più di 500 persone nell’ottobre del 1943.
Secondo lo storico veneziano Simon Levis Sullam l’affaire Palatucci s’inserisce nella questione più vasta di come la persecuzione antiebraica nell’Italia Fascista e il ruolo degli italiani sono stati rappresentati nei 68 anni dalla fine della guerra. Spiega Sullam, co-curatore dell’ultima grande opera sulla Shoah in Italia edita dalla UTET (2012): «Il mito del bravo italiano ha costituito dopo la Seconda guerra mondiale una fonte di auto-assoluzione collettiva rispetto al sostegno offerto a politiche antisemite e razziste nel periodo 1937-1945, cui migliaia di italiani parteciparono direttamente». Coslovich sottolinea come più della metà del fascicolo personale di Palatucci riguarda gli sforzi compiuti dal padre Felice e dallo zio Vescovo per la riabilitazione completa del commissario rispetto all’epurazione, la concessione di una pensione di guerra che la legge accordava solo a vedove e orfani dei caduti (Palatucci era invece celibe) e il coinvolgimento del governo italiano nel designare il loro congiunto come «salvatore di ebrei».
Tra il 1952 e il 1953, il Vescovo Giuseppe Maria Palatucci si avvale della collaborazione scritta di Rodolfo Grani, un ebreo fiumano di origine ungherese che aveva conosciuto durante il suo breve internamento a Campagna. Eppure lo storico Mauro Canali, esperto di storia del sistema di polizia fascista all’Università di Camerino, sostiene che nella copiosa fonte documentaria riguardante Grani non vi è segno che abbia mai incontrato Giovanni Palatucci. Aveva invece conosciuto Palatucci il Barone Niel Sachs de Gric, anch’egli ebreo fiumano di origine ungherese, avvocato della curia e rappresentante della Santa Sede per il Concordato con la Jugoslavia. Nel 1952 il vescovo gli invia un articolo da pubblicare sull’Osservatore Romano con «l’invito» a firmarlo al suo posto. I documenti attribuiti a Grani e Sachs, la cui autenticità è tutta da verificare e nessuno dei quali ricevette l’aiuto del commissario, sono all’origine dell’epica palatucciana. L’ultimo tassello della leggenda a cadere è quello relativo alle circostanze della sua morte. La motivazione dell’arresto firmata da Herbert Kappler e depositata all’Archivio Centrale dello Stato non lascia dubbi: Palatucci fu accusato di tradimento dai tedeschi per aver trasmesso al nemico (gli inglesi), documenti della Repubblica Sociale di Salò che chiedevano di trattare l’indipendenza di Fiume, non per aver protetto gli ebrei di quella città.
Alessandra Farkas
“Corriere della Sera” 25 maggio 2013