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È mancata Maria Pasquinelli, che a Pola sparò al generale De Winton – 05lug13

Nel silenzio, come è vissuta nei decenni seguiti alla grazia concessale nel 1964, è mancata a Bergamo il 3 luglio 2013, Maria Pasquinelli, la maestra fiorentina assurta a tragica notorietà per aver concepito ed eseguito, a Pola il 10 febbraio 1947 – una data di enorme valore emblematico per tutti gli Esuli italiani dai territori ceduti –, l’omicidio del generale Robert W. De Winton, comandante della 13.ma Brigata inglese di fanteria di stanza nel capoluogo istriano, quale estrema protesta contro la cessione della città e di tanta parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista di Tito. Tanto nel silenzio ha trascorso i suoi anni da cittadina libera che molti, in tempi più e meno recenti, l’hanno ritenuta non più in vita da antica data ed oggi si stupiranno nel leggere la notizia del suo decesso.

La sua storia è nota, almeno alla comunità degli italiani esuli da quei territori. Nata nel capoluogo toscano nel 1913, conseguì il diploma di maestra, intraprese la carriera dell’insegnamento ed al contempo si laureò in Pedagogia. Nel 1942, su sua richiesta, fu inviata come insegnante in Dalmazia, un territorio reso infido dalle opposte guerriglie delle diverse resistenze jugoslave, tutte comunque egualmente ostili alla popolazione italiana. In questa pericolosa cornice l’insegnante Pasquinelli volle documentare le violenze dei partigiani comunisti di Tito e si dedicò con fervore al recupero delle salme dei militari italiani uccisi e degli infoibati.

Riparata a Trieste, si impegnò nella tessitura di contatti tra la «Decima Mas», dislocata nella Venezia Giulia, con i partigiani non comunisti della «Franchi» e della «Osoppo», nel tentativo di giungere ad un’azione comune in difesa dei confini italiani: un tentativo al quale lavoravano anche settori moderati della RSI e alcuni ambienti militari del Regno del Sud. Arrestata dai tedeschi, venne liberata grazie all’intervento di Junio Valerio Borghese. Rientrò a Pola, proprio nel frangente in cui la stragrande maggioranza della cittadinanza italiana si preparava ad abbandonare definitivamente Pola, unico caso di esodo in qualche modo organizzato, grazie alla presenza temporanea delle truppe alleate.

Il 10 febbraio 1947 venne firmato a Parigi il trattato di pace, le cui condizioni per l’Italia si rivelarono durissime, palesandosi vana la speranza che il periodo di «cobelligeranza» con gli anglo-americani avesse potuto ammorbidire le condizioni imposte. Tra queste, la cessione di un ampio territorio – attribuito all’Italia da accordi internazionali dopo la Prima guerra mondiale – alla Jugoslavia titoista, il cui atteggiamento nei confronti della popolazione italiana autoctona si era ampiamente e drammaticamente evidenziato con gli eccidi delle foibe, gli espropri illegittimi, i processi-farsa e le tante violenze volte ad indurla alla fuga.

In un clima di paura generalizzata e di assoluta disperazione si inserì il gesto eclatante ed estremo di Maria Pasquinelli, che quel giorno assunse su di sé la responsabilità – che immaginava sarebbe stata sanzionata con la massima pena della vita – di colpire un rappresentante di quegli «alleati» che si stavano rendendo complici di un’ingiustizia da tutti percepita come intollerabile. Il suo gesto, così estremo e per di più commesso da una donna, sollevò all’epoca un’ondata di reazioni sulla stampa e presso la pubblica opinione, italiana e internazionale. Nel corso del processo che seguì presso la Corte Militare Alleata di Trieste, l’insegnante confermò con fermezza le ragioni che l’avevano mossa, non per colpire un uomo, che non conosceva, ma un simbolo di quelle quattro potenze responsabili di così dure condizioni imposte all’Italia. Il verdetto fu pena di morte, condanna commutata nel 1954 in ergastolo.

Si rifiutò ripetutamente di chiedere la grazia, confermando con il suo atteggiamento le convinzioni che l’avevano mossa a quel gesto senza ritorno. La grazia le pervenne comunque nel 1964, in un tempo e in un Paese già lontani dalle tragedie dei suoi confini orientali. Uscita dalla prigione fiorentina di Santa Verdiana, entrò nel lungo e profondissimo silenzio nel quale ha custodito i ricordi e le ombre di quel suo atto con cui, come ha scritto lo storico Diego Redivo, si volle far carico da sola dell’«impotenza dell’intera nazione».

La sua figura, che scompare oggi e definitivamente una seconda volta, è stata alternativamente esaltata come un’eroina dei princìpi calpestati e una vindice del diritto svilito, o un soggetto intriso di sventurate dottrine e minato da emotività e rigore eccessivi. Di certo il suo gesto dette agli eventi che si andavano consumando nella Venezia Giulia un’ulteriore e più forte risonanza internazionale, ma di quello stesso gesto – che naturalmente non poteva mutare la direzione dei fatti – Maria Pasquinelli rimase prigioniera per tutti gli anni a seguire. Una reclusione condivisa, per sua stessa ammissione, con l’ombra di quell’uomo cui tolse la vita e che sentiva sempre dietro le spalle: la sua pena non graziata, la più tremenda, alla quale l’insegnante è rimasta per sempre incatenata, nel silenzio.

Patrizia C. Hansen
© ANVGD Sede nazionale

 

 

 

(foto CDM)

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