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Buoni postali, la protesta di due esuli dalmate – 22lug13

Un risarcimento mutilato. Una parte consistente del rimborso per le sofferenze patite da esuli istriani investito in quei buoni postali fruttiferi che si scoprono non più redditizi come ci si aspettava. Oltre il danno anche la beffa. Storia di due sorelle dalmate di nascita e savonesi d’adozione. Hanno negli occhi la forza tranquilla di chi conosce l’ingiustizia ma non le consente di scalfire la propria umanità. Quando raccontano del padre fucilato dai partigiani titini e infoibato nel maggio del ’45, di un viaggio della speranza dalla Dalmazia a Savona, dei torti subiti dalla Jugoslavia comunista e dei ritardi patiti per colpa dello Stato italiano, le sorelle De Petris non abbassano mai lo sguardo.

È passato tanto tempo ma i ricordi bruciano come ferite. Difficili da rimarginare. Giovanna, per tutti Giannella, è la più grande: oggi ha 81 anni e, nel suo appartamento di via Guidobono, si è circondata di un reliquario fatto di foto e medaglie, attestati e articoli di giornale. Ricorda quando fu costretta a scappare, lei 13enne, da un inferno dove le cavità carsiche risucchiavano anime. Non di peccatori, ma di semplici italiani.

Nel palazzo di fronte abita la sorella Maria («ma mi conoscono come Mariuccia», dice). Ex insegnante alle elementari delle Fornaci, la 75enne aveva solo otto anni alla fine della guerra e scappò imbarcandosi con dei parenti su un peschereccio diretto a Venezia. A quel tempo chi si sentiva italiano fu perseguitato come straniero.

Oggi le due sorelle temono che i risparmi di una vita possano aver perso valore. Quei soldi, investiti dalla madre in buoni postali nel 1983, rappresentano una buona parte del risarcimento che lo Stato italiano ha concesso alla vedova di un funzionario di banca, Zaccaria De Petris, a cui i titini non solo confiscarono le terre ma che fu fucilato e infoibato il 13 maggio del 1945 a Veglia, isola (oggi) croata che si chiama Krk, a due passi da Fiume.

«Abbiamo già avuto tante fregature, non ne vogliamo altre – racconta Giovanna -. Abbiamo letto sul Secolo della storia dei buoni postali. E adesso vogliamo vederci chiaro perché quei soldi nostra madre li prese come risarcimento dei tanti torti che abbiamo subito». Una parte di quei titoli è già scaduta. Ma le due donne, nel dicembre dello scorso anno, hanno ritirato i soldi senza farsi tante domande. Fidandosi del patto sottoscritto con lo Stato.

«Un buono di un milione ci ha fruttato 24mila euro circa – spiega ancora Giovanna -. Non so quanto avremmo dovuto incassare perché ci siamo fidati. Adesso però leggiamo che gli interessi sono stati stravolti da una legge del 1986. Ad agosto e novembre abbiamo altri buoni postali in scadenza ma stavolta abbiamo contattato il Movimento consumatori per vederci chiaro. Abbiamo paura di continuare a prendere delle bidonate».

Quei soldi, così sudati, li hanno attesi per anni. «La parte che nostra madre decise di investire in buoni postali ad inizio degli anni Ottanta è solo una fetta – confida Maria -. Stiamo ancora aspettando, dopo quasi settant’anni, che lo Stato ci finisca di pagare. L’ultima tranche è arrivata nel 2001 ma materialmente i soldi li abbiamo avuti solo nel 2010». Una trafila durata decenni. E quel rimborso è soprattutto una questione di principio.

«Papà l’hanno ucciso a 43 anni – racconta commossa Giovanna -. Non ne abbiamo saputo più nulla, il suo corpo è stato gettato chissà in quale foiba». Una famiglia di pericolosi filo-nazisti? Macché. «Eravamo semplici italiani, nella nostra famiglia sono stati uccisi in sette. E oggi non ci stiamo a prendere un’altra fregatura dallo Stato».

Mario de Fazio
su “Il Secolo XIX” 20 luglio 2013

 

 

 

Le dalmate Giovanna e Maria De Petris mostrano i loro buoni fruttiferi postali (foto Il Secolo XIX)

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