di Paolo Stanese
Giorni e giorni di polemiche e accuse incrociate (partite dall’ex-direttore del Teatro Stabile Paris Lippi), l’attenzione cittadina e mediatica che sale, fino ad arrivare sui quotidiani nazionali. Dichiarazioni si susseguono sul contenuto del testo di uno spettacolo che nessuno ha ancora visto, e non ha una forma definitiva; un tema che è un nervo scoperto per moltissimi e un dramma che parla di una pagina di storia ancora ignota per altrettanti. Spettatori in sala che hanno ben chiara in testa la versione dei fatti che vogliono (e non vogliono) sentirsi raccontare.
Quando martedì 22 ottobre va in scena Magazzino 18, Simone Cristicchi deve sentirsi addosso una pressione incredibile. Ma non perde un colpo. Nei panni di un ignaro archivista romano spedito qui per inventariare il contenuto del magazzino e, nello stesso tempo, dello “spirito delle masserizie” che rievoca le storie di quegli esuli che hanno abbandonato lì per sempre quegli oggetti, inizia il suo racconto.
E quando, alla fine della prima canzone, sulle parole “qui troverete soltanto fantasmi/che ormai non fanno paura a nessuno” scoppia un fragoroso, vibrante applauso, il cantautore romano capisce di aver giocato bene le proprie carte: lo spettacolo funziona, il pubblico lo segue. Cristicchi procede, con qualche semplificazione, a tracciare un quadro storico degli anni precedenti (senza concessioni al mito degli “italiani brava gente”), per poi soffermarsi a raccontare toccanti e tragici episodi legati all’esodo istriano. Un altro scrosciante applauso scatta quando il cantautore sottolinea che “nei giorni in cui il resto d’Italia festeggiava la Liberazione, in queste terre cominciava l’occupazione”.
Da quei giorni cupi sono passati più di sessant’anni, e finora non molto era stato fatto (al di fuori dal lavoro degli storici) per dislocare le opposte retoriche calcificate a Trieste, dove prevalgono ancora oggi i proclami ideologici, mentre nel resto del paese le vicende giuliano-dalmate sono sconosciute e ignorate. Ben venga dunque il lavoro di Cristicchi, non solo a Trieste ma in giro per l’Italia: non possiamo che augurarci che Milano, Torino, Napoli e Genova ritirino il “no” allo spettacolo seguito alle polemiche, e propongano al loro pubblico Magazzino 18, che arriverà anche a Fiume, Umago, Rovigno e Pola.
Detto questo, da un punto di vista artistico, ci si può chiedere se il “musical civile” che Cristicchi ha scritto con il giornalista Jan Bernas (autore di Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani, libro di testimonianze sull’esodo istriano cui Cristicchi ha attinto perMagazzino 18) funziona. La mia personale opinione è “abbastanza”: è davvero un’impresa titanica rievocare in due ore scarse una vicenda così delicata e di tale complessità, e trovare un’equilibrio fra la verità stabilita dagli storici, le storie singolari narrate e l’uso della canzone non è facile.
Cristicchi ha fatto molto bene i compiti (canta persino in modo credibile una canzone in dialetto istroveneto), e alcuni tocchi drammaturgici nello spettacolo sono notevoli. Certo, nel complesso lo spettacolo gioca molto sull’emotività, e chi si aspetta di capire potrà restare interdetto da alcuni passaggi logici troppo temerari; certo, per concentrarsi sulle storie Cristicchi ricorre ad alcune semplificazioni di troppo; certo, l’ambizione (per lo meno quella del personaggio) di mettere la parola definitiva su queste vicende per “andare avanti” è sproporzionata rispetto al quantitativo di dolori e di domande suscitate dall’esodo. Ma che sia giunto qui uno straniero, uno che non porta nel sangue la memoria di quei giorni, a offrire un canto catartico per i protagonisti della diaspora giuliana, finalmente rammemorati, è già una gran cosa.
Che brutta figura, accogliere questo straniero con quel vespaio di polemiche sempre identiche. Ci auguriamo che, nel complesso, la città sia più ben disposta dei soliti noti nei confronti di chi un passo osa muoverlo.
(Scritto in collaborazione con Sabina Viezzoli)