Enrico Burich (Fiume 1889- Modena 1965), secondo presidente della Società di Studi Fiumani successe ad Attilio Depoli nel 1963: la Società di Studi Fiumani ci invia un suo interessante articolo apparso nel 1948 su Difesa Adriatica in cui sottolinea il sentimento dì appartenenza all’Italia e la dolorosa via plebiscitaria dell’esilio.
Col plebiscito del XXX ottobre, diciamolo nel modo più semplice, come si conviene oggi si manifesta la realtà italiana di Fiume. Il piccolo comune italiano in riva al Carnaro esce da secolari equivoci e si inserisce nella storia d’Italia. Non più compromessi e «provvisorii», ma un voto esplicito: annessione.
Colla sua autonomia Fiume si era difesa strenuamente e con successo nell’ambito dell’impero austro-ungarico e aveva buon gioco. Spezzatasi la compagine asburgica era naturale che tendesse verso l’Italia. L’autonomia, il «Corpus separatum», non rappresentava più un baluardo capace di resistere ai tempi procellosi che si annunziavano. Fiume intuì il pericolo e si coprì di tricolori. Nel momento cruciale della sua storia, la città decise del suo destino traendo le logiche conseguenze di tutto il suo passato. Dal crollo della monarchia asburgica sorgevano nuovi Stati indipendenti: alle spalle di Fiume la Croazia proclamava la sua indipendenza per unirsi agli sloveni e ai serbi. Fiume era troppo piccola per fidarsi di una dichiarazione di indipendenza anche da parte sua. Andò più in là: fece uso della sua indipendenza per collocarsi sotto l’usbergo italiano.
La città fu colta di sorpresa nelle tumultuose giornate della fine di ottobre dalla nuova situazione, che andava rapidamente intorbidandosi. Al mattino del 29 le autorità ungheresi si dileguarono senza cedere il potere a nessuno spaventate da un tentativo di insurrezione di truppe croate. Molta gente affamata in giro per le strade, i disertori escono dai loro nascondigli, violenze, saccheggi, fucilate. Vecchi rancori e avite aspirazioni affiorano in un baleno. Al palazzo del Governo si insedia tacitamente un fiduciario del Consiglio nazionale di Zagabria, ma non riesce a dominare la situazione perché gli manca ogni seguito in città. Tratta col comune che è sempre in mano nostra. Tira fuori anche lui la vecchia carta dell’autonomia fiumana, dichiara che avrebbe rispettato l’italianità del municipio. Ma nessuno in Fiume crede a chi parla in nome di Zagabria. E infatti cosa ha Fiume in comune colla Croazia? Non ne volle sapere nel lontano 1776 quando Maria Teresa imprudentemente aveva tentato di annettere Fiume all’Ungheria, sì, ma attraverso la Croazia. E dopo tre anni di rimostranze ottenne che Fiume costituisse un «corpus separatum», dipendesse direttamente dall’Ungheria senza il tramite pericoloso dei croati. Così Fiume aveva dato della sua coscienza italiana una prova che nessuno può mettere in dubbio e che ha un solo significato: non lasciarsi travolgere dallo slavismo, restare sentinella del mondo latino. E l’Italia, come unità politica era allora tanto lontana e vaga!
Alla metà del secolo scorso la minaccia si fece più forte, la pressione più pericolosa. I croati chiedono un premio per la loro fedeltà imperiale: Fiume. Questa volta non valgono le proteste dei fiumani: la città è occupata dai Croati (30 agosto 1848), che vi rimangono per venti anni. E sono venti anni di soprusi da una parte e di fiera resistenza dall’altra. I fiumani si ribellano apertamente quando nel 1861 si tenta di costituire una «contea di Fiume» e ci vuole lo stato di assedio per domarli. Invitati a mandare quattro deputati alla dieta di Zagabria, si oppongono e sulla scheda elettorale scrivono la parola «nessuno». Nel 1870 cessa finalmente il dominio croato e ritorna l’Ungheria. L’italianità di Fiume risulta allora intatta: i croati non sono riusciti a mutare i sentimenti dei fiumani in quegli anni tormentosi. Il piccolo corso d’acqua tra Fiume e Susak (cioè la Croazia) divide ancora due mondi. Di questo appunto si tratta e non di lotte municipali. Fiume accetta l’Ungheria che può salvarla dalla marea croata: sa che di fronte all’Ungheria, lontana, potrà sempre difendere la sua italianità. E infatti quando l’Ungheria tradisce i suoi impegni e intacca i privilegi del municipio, all’inizio del secolo, i giovani danno vita ad un nuovo movimento, l’irredentismo della «giovine Fiume». Ci si volge decisamente ad occidente, all’Italia. Se si pensa a questo atteggiamento secolare di Fiume di fronte alla Croazia si capisce come al crollo definitivo della monarchia asburgica Fiume, per restare fedele a se stessa, alle sue tradizioni e ai suoi più profondi sentimenti trovasse quasi istintivamente la sua strada. Ci voleva tuttavia grande coraggio e molta fede perché l’Italia, sia pur vittoriosa, era ancora al Piave e la città, come abbiamo detto, pullulava già di gente armata calata dal contado. Lontani erano anche i cento volontari fiumani che combattevano tra le file dell’esercito italiano. Non importa. Il 29 si costituisce il Consiglio Nazionale Italiano e una guardia nazionale. In ventiquattro ore tutta la città si schiera accanto al Consiglio Nazionale e dà il suo consenso. Ed ecco, raccolte le forze, saltò fuori improvvisamente, quasi anonimo, un solo voto: annessione. Si stava discutendo sul contegno da tenere di fronte ai fiduciari di Zagabria, sui nostri diritti, sulle nostre forze. A questo punto nella sala del Municipio intervenne un consigliere e fece un discorso molto breve: “Che cosa stiamo a romperci la testa! Noi non vogliamo altro che l’annessione all’Italia, perché non possiamo volere altro. E proclamiamo la nostra annessione all’Italia! Sarà quel che sarà!Parole di sano realismo e di grande fierezza nella loro semplicità. E non si discusse più. Si pensò invece a compilare subito il testo del proclama. Eccolo:
Il Consiglio Nazionale Italiano di Fiume, radunatosi quest’oggi in seduta plenaria, dichiara in forza di quel diritto, per cui tutti i popoli sono sorti a indipendenza nazionale e libertà, la città di Fiume, la quale finora era un corpo separato costituente un comune nazionale italiano, pretende anche per sé il diritto di autodecisione delle genti. Basandosi su tale diritto il Consiglio Nazionale proclama Fiume unita alla sua madrepatria, l’Italia. Il Consiglio Nazionale italiano considera come provvisorio lo stato di cose subentrato addì 29 ottobre 1918, mette il suo deciso sotto la protezione dell’America, madre di libertà e della democrazia universale, e ne attende la sensazione dal congresso della pace.
Preciso, chiaro. Porta anche i segni dei tempo: afferma il diritto di autodecisione e si affida alla protezione dell’America. E in quel momento erano cose che contavano, perché si credeva ai quattordici punti di Wilson. Ad ogni modo, con quell’atto di indiscutibile abilità politica, si mettono le mani avanti.
Il proclama viene affisso immediatamente in tutta la città. Ma c’è bisogno di una sanzione. Non si farà aspettare. I fiumani sono già tutti per le strade e spontaneamente si uniscono in corteo. Tricolori, acclamazioni, inno di Garibaldi, inno di Mameli. Sembra che cadono tutte le barriere, che la meta sia raggiunta. Chi può contrastare il passo a tanta gente? Non certo gli sbalorditi padroni croati che preferiscono dileguarsi. In Piazza Dante il proclama è letto solennemente alla folla che lo ascolta fremente, applaude, invoca, giura. È un plebiscito di popolo, come tante volte, in tutto il mondo, nei grandi momenti della storia. Una sfida aperta, alla luce del sole, e un monito. Fiume per conto suo ha deciso. Che cosa è in confronto il pezzo di carta gelosamente custodito nelle casseforti delle cancellerie alleate, quel Patto di Londra, faticosamente e segretamente concluso, che volle assegnare Fiume alla Croazia irridendo a tutta la storia della piccola città? Ed è ancora segreto, per quanto sin dall’epoca delle trattative dalle indiscrezioni dei giornalisti sia trapelata qualche mostruosità ai nostri danni, vagamente anche quella di Fiume. Dopo poco si profilerà torvo a Parigi sul tavolo dei negoziatori della pace. Ma il plebiscito dei fiumani gli taglierà la strada. Quanti progetti di soluzione, uno più assurdo dell’altro!
«Sarà quel che sarà» aveva esclamato il consigliere nazionale fiumano nella sua semplicità. «Cosa fatta capo ha!» dirà Gabriele d’Annunzio. Le cose si complicheranno e metteranno a rumore il grande mondo diplomatico. Sorgerà «la questione di Fiume». A Rapallo si riesumerà lo Stato libero. E non saranno soltanto nuove pagine di storia del comune italiano.
Infine, nonostante tutto, prevalse il plebiscito del XXX ottobre e il 16 marzo 1924 quel voto fu esaudito e Fiume ebbe la sua pace. Si compì in sostanza ciò che logicamente doveva compiersi, se la storia ha ancora un senso. Fiume ebbe la sua pace, perché ebbe la patria. Avere una patria: è questo il significato del XXX Ottobre. E la sua forza. Condividere le sorti della patria nei tempi tristi come nei tempi lieti (…); giunti all’annessione, quale sarebbe stato il nostro destino nel nuovo ciclo storico che si è iniziato nel maggio del 1945? Sì, ci siamo trovati ad un tratto abbandonati in mano straniera e abbiamo visto scomparire le autorità del nostro Stato. Ma, sia pur abbandonando la nostra città, abbiamo potuto rifugiarci in terra che non ci è straniera e ritrovare quindi la patria. È dal plebiscito del XXX Ottobre che ci viene il diritto di ricostruirci qui un’esistenza godendo delle nostre prerogative di cittadini italiani. Non siamo costretti ad andare raminghi di terra in terra, senza passaporto, diffidenti e diffidati, in un mondo spietato. L’opzione è una beffa insulsa impostaci dal trattato infame e ci lascia indifferenti. Ben altrimenti che attraverso un atto formale ci siamo conquistati il diritto di essere italiani!
Il destino ha voluto dunque da noi anche di più. Ha voluto che noi riformassimo il plebiscito del XXX Ottobre con un plebiscito ancora più importante, quello del nostro esodo. E l’abbiamo fatto coraggiosamente al di sopra di tutti gli eventi. Per non rinnegare il nostro passato; per continuare ad essere italiani. Nella sciagura come nella vittoria soltanto italiani. Il trattato innominabile non ci ha concesso il diritto di autodecisione. Ma noi con l’esodo questo diritto ce lo siamo ugualmente conquistato e quando sarà giunto il momento lo getteremo sulla bilancia, suffragato di cifre.
La storia continua e nulla si distrugge. Anche se gli eserciti e la diplomazia arrivano in ritardo, il voto di un popolo conta. Non ha forse il plebiscito del XXX Ottobre spezzato il Trattato di Londra prima e poi quello di Rapallo? E ancora circondato di luce e con nuovo vigore che gli viene dal nostro esodo prevarrà – senza guerra – anche sul trattato di Parigi. È fatale.
Enrico Burich
Tratto da Difesa Adriatica, A. II, n. 24, 30 ottobre 1948