ANVGD_cover-post-no-img

Intervento dello storico Gianni Oliva alla seduta solenne del Consiglio Comunale di Bologna per il Giorno del Ricordo (8 febbraio 2016) – 07mag16

 

Si ringraziano il Comune di Bologna e l’autore per aver fornito il testo dell’orazione.

 

Buongiorno a tutti. Partirei dal termine foibe. Foibe è un termine di carattere geologico; indica dei grandi crateri scavati nel corso dei millenni da fiumi che ormai scorrono sotterranei di cui è cosparso il confine nordorientale dell’Italia (la zona del Carso e la zona dell’Istria). In questi crateri la gente giuliana da sempre butta le cose che non servono: carcasse di animali morti, mobili rotti, suppellettili usate e durante la prima guerra mondiale un certo numero di soldati che non si è riusciti a seppellire altrimenti. In un periodo che va dal 30 aprile al 12 giugno 1945 – vedremo poi perché queste date – in quelle foibe sono stati buttati i cadaveri di un numero imprecisato di persone, ma che oscilla tra le otto e le diecimila, nella stragrande maggioranza cittadini italiani uccisi e buttati nelle foibe dalle truppe iugoslave. Per capire come mai questa strage e poi soprattutto per capire come mai non se ne è mai parlato bisogna fare un passo indietro perché la storia è sempre fatta di fatti che si concatenano l’uno all’altro. C’è sempre un prima e un dopo, con l’avvertenza però che il prima serve per spiegare il dopo e non per giustificarlo, perché se il prima giustificasse il dopo la storia sarebbe predeterminata. Se qualcuno mi dà uno spintone e per reazione io lo mando all’ospedale, lo spintone lo devo raccontare perché serve a spiegare il contesto nel quale si sono sviluppate le cose, ma il fatto che l’abbia mandato all’ospedale non è giustificato da quello che è successo prima. Questo mi pare uno dei casi in cui questa distinzione bisogna sottolinearla perché spesso ancora oggi c’è qualcuno che utilizza ciò che è accaduto prima per giustificare ciò che è accaduto dopo. In queste zone da sempre vive una popolazione mistilingue. Ci sono degli italiani, degli sloveni, dei croati e ci sono più genericamente degli italiani e degli slavi. Queste popolazioni hanno convissuto pacificamente nei lunghi secoli in cui quelle terre hanno fatto parte della Repubblica di Venezia, hanno continuato a vivere in concordia nel periodo in cui quelle terre sono diventate impero austro-ungarico dopo il Trattato di Campoformio del 1797 e i problemi sono nati nel momento in cui sono diventati Italia alla fine della prima guerra mondiale, perché contestualmente in Italia si è affermato il regime fascista, cioè un regime nazionalista che predica la superiorità di una nazione rispetto a un’altra nazione. Il nazionalismo in quanto confronto tra nazioni a Bologna o a Torino, dove sono cresciuto io, aveva poca presa perché tutti i torinesi o tutti gli emiliani siamo in queste zone, ma nel confine nordorientale dove le due comunità esistevano questa predicazione nazionalista ha cominciato a scavare fratture e distanze là dove nei secoli c’era stata invece concordia e collaborazione. Quando nel 1922 il fascismo arriva al potere impone una serie di provvedimenti che cercano di snazionalizzare la comunità slava per esempio con l’italianizzazione dei cognomi, l’obbligo di usare l’italiano nelle scuole, anche là dove ci sono bambini che parlano solo sloveno e croato, o l’obbligo di usare l’italiano nelle omelie. Una delle ragioni dell’ostilità del clero cattolico sloveno e croato rispetto al fascismo è proprio questo obbligo dell’uso dell’italiano, che snazionalizza le tradizioni e le abitudini di quel popolo. Devo dire però che dopo vent’anni di regime fascista nel 1939 il numero di sloveni e croati che abitano in quelle zone è più o meno lo stesso di quello che c’era vent’anni prima, mentre se andiamo a vedere qual è il numero di italiani che continua ad abitare l’Istria dopo che è diventata iugoslava ci accorgiamo che la comunità italiana è stata ridotta al 10 per cento della sua consistenza. Questo per dire che il fascismo, come sosteneva un grande storico torinese, Franco Venturi, che è stato un grande storico di storia moderna e un dirigente del Partito d’Azione nel 1943 – 1945, il fascismo è stato soprattutto il regno della parola, dove si è parlato, si è proclamato, si è minacciato, si è annunciato, si è esaltato, si è celebrato, ma poi si è fatto molto meno di quanto veniva detto, salvo che quando si tratta di comunità che vivono in un’atmosfera di contrapposizione reciproca, dove la marginalizzazione dell’uno è il prezzo dell’affermazione dell’altro e dove si impone una nazione rispetto alle altre tutto questo crea delle divisioni e apre dei contrasti. Su questo si inserisce un’altra cosa che i libri di storia ricordano poco, cioè che dal 1941, in aprile, l’esercito italiano insieme a quello tedesco invadono la Yugoslavia, la occupano, insieme alla Grecia, e impongono un regime occupazionale di cui ci siamo dimenticati perché noi abbiamo fatto finta di avere iniziato la guerra l’8 settembre nel momento in cui siamo passati dalla parte degli alleati angloamericani, invece la guerra l’abbiamo scatenata accanto a Hitler nel giugno 1940 e sino al 1943 abbiamo fatto cose non diverse da quello che faceva l’esercito tedesco. Tutti gli eserciti d’occupazione quando si trovano di fronte a una resistenza partigiana reagiscono reprimendo la popolazione civile perché il partigiano non è un combattente che si affronta sul campo di battaglia e allora si cerca di colpire la popolazione civile che di questa resistenza è in qualche modo complice e sostegno. Dico questo perché Marzabotto e i Sant’Anna di Stazzema ci sono anche in Yugoslavia e li hanno fatti anche i soldati italiani. È una delle cose che abbiamo dimenticato e anche questa la vedremo dopo. Questa occupazione militare alimenta nella Yugoslavia la nascita di un movimento di opposizione che, a differenza di quanto capita in Italia, dove le formazioni partigiani sono organizzate in diversi gruppi, viene invece organizzata in un unico esercito, egemonizzato dal Partito Comunista e dal maresciallo Tito. È un esercito forte che libera la Yugoslavia quasi da solo. Mentre le formazioni partigiane in Italia hanno combattuto nelle retrovie del fronte, ma il fronte l’hanno retto sulla Linea Gustav prima e sulla Linea Gotica poi gli angloamericani, in Yugoslavia la liberazione arriva quasi completamente per opera dell’esercito iugoslavo, il quale non è un esercito comunista, ma è un esercito nazional-comunista, vale a dire che il maresciallo Tito propone l’obiettivo politico di una società senza classi e con l’abolizione della proprietà privata, cioè una società comunista, ma per tenere insieme sloveni, croati, serbi, bosniaci, kosovari, macedoni, cioè tutta la varietà di etnie di quello che allora si chiamava Regno di Yugoslavia, usa il cemento del nazionalismo. Se pensate a quali danno hanno provocato nella storia d’Europa il comunismo nell’interpretazione staliniana e il nazionalismo dall’altra parte potete capire quanto è stata esplosiva la miscela in quel movimento. In questo nazionalismo slavo che cosa promette il maresciallo Tito? Di raggiungere alla fine della guerra il confine del fiume Isonzo e quindi di inglobare nella nuova Yugoslavia comunista tutte le terre mistilingue, ma anche Trieste, perché è la città più importante, anche Monfalcone, perché ci sono i cantieri navali, anche Gorizia, perché è lo snodo ferroviario e stradale verso il centro dell’Europa, e persegue in modo strategicamente mirato questo obiettivo, tanto che a Trieste, che è una città in stragrande maggioranza italiana, l’esercito iugoslavo arriva il 30 aprile, mentre a Lubiana, che è una città in netta maggioranza slovena, l’esercito di Tito arriva solo il 12 maggio, quasi due settimane dopo. Arrivano per primi prima dell’esercito angloamericano e slavizzano le terre che hanno conquistato. Trieste smette di chiamarsi Trieste e diventa Trst, Parenzo smette di chiamarsi Parenzo e diventa Pore?, Fiume smette di chiamarsi Fiume e diventa Rijeca e vengono nominate le autorità amministrative da parte dell’esercito occupazionale attraverso persone di nazionalità slava. Come al momento della liberazione qui i Comitati di Liberazione Nazionale nominato i sindaci, i questori e i prefetti, la stessa cosa avviene sul confine nordorientale ma ad opera dell’esercito di liberazione titino, quindi tutte le persone che vengono nominate sono delle persone slave, ma soprattutto comincia la caccia agli italiani che possono difendere l’italianità di quei territori, perché quando finisce la guerra non si è ancora capito quale sarà il confine dell’Italia nordorientale. Quando a Yalta si sono trovati Churchill, Roosevelt e Stalin hanno definito i confini d’Europa, ma hanno lasciato indeterminato il confine nordorientale dell’Italia perché non si sapeva se doveva essere quello del 1866, quello del 1918 o quello del 1924 dopo l’occupazione di Fiume da parte del regime fascista italiano. Gli iugoslavi vogliono eliminare tutti coloro i quali al tavolo della trattativa di pace possono difendere l’italianità di quelle terre, quindi eliminano coloro i quali avevano avuto un ruolo nel vecchio regime, ma in genere sono dei pesci piccoli perché, come spesso capita, i pesci grossi nel momento del tracollo si mettono in salvo per tempo. Poi prendono tutti coloro i quali hanno fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Venezia Giulia, cioè gli antifascisti, perché rappresentano la nuova Italia, quindi sono un ostacolo ancora maggiore per l’annessione, poi prendono coloro i quali rappresentano lo Stato (ex carabinieri entrati nella GNR, uomini della Capitaneria di Porto, maestri delle scuole oppure postini, perché rappresentano comunque lo Stato italiano attraverso il mestiere) e poi prendono persone che non c’entrano nulla con queste categorie, ma che per un’invidia privata, una gelosia o un regolamento di conti finiscono nel vortice con cui la guerra si conclude. Come li prendono? Li prendono di notte, li prelevano dalle case e li fanno sparire. Noi siamo stati abituati una ventina di anni fa a parlare dei desaparecidos argentini e gli infoibati sono a loro modo dei desaparecido. Una delle testimonianze più drammatiche dei parenti è il racconto di questi rumori, gente che arriva di notte a prendere le persone, il mattino dopo i familiari che vanno a chiedere notizie alla caserma dell’OZNA, che è la polizia politica dell’esercito di Tito, da questi vengono mandati in una caserma militare, dalla caserma dell’esercito vengono mandati in un ospedale, dall’ospedale di nuovo alla caserma dell’OZNA, in un circuito dove mai nessuno dà notizie di quello che succede, però le voci corrono e i movimenti di camion attorno alle foibe durante la notte vengono colti e si comincia a capire che cosa succede. Le persone vengono prese senza processo, messe sul ciglio delle foibe, fucilate, fatte cadere nella foiba stessa per nasconderle e farle sparire, oppure semplicemente buttate ancora vive – hanno trovato dei cadaveri che non avevano segni né di arma da fuoco né di arma da taglio – e sono morti sfracellandosi in queste voragini. Tutto questo dura fino al 12 giugno perché il 12 giugno i tre grandi (gli americani, gli inglesi e i russi) trovano un accordo su una linea di confine che viene chiamata Linea Morgan, dal nome del generale americano che la traccia sulla cartina, ed è grossomodo ancora oggi il confine tra l’Italia e la Slovenia. È un confine tracciato sulle cartine guardando meridiani e paralleli e non gli insediamenti; ci sono due casi di paesi che stanno sotto l’Italia mentre il cimitero resta sotto la Yugoslavia e in alcuni casi il confine separa la fattoria, la cascina, dall’orto e dall’aia. Sono le ragioni della storia che passano sopra le ragioni delle persone. Nel momento in cui questa linea di confine viene stabilita non c’è più ragione di infoibare. Tito vede riconosciuta una parte significativa delle sue aspirazioni: tutta la Dalmazia, tutta l’Istria, tutti gli arcipelaghi dell’alto Adriatico diventano Yugoslavia e da questa parte restano Trieste, Gorizia, Monfalcone, ma due terzi delle aspirazioni espansionistiche iugoslave vengono soddisfatte, quindi non c’è più bisogno di infoibare. Inizia però un secondo processo: tutti gli italiani che stanno in terre che diventano Yugoslavia cominciano ad avere la sensazione che da quella parte non ci sia più futuro e così comincia l’esodo. Si sentono marginalizzate, tutte le autorità amministrative sono autorità slave, l’italiano viene censurato e bandito, vi è l’abolizione della proprietà privata e la nazionalizzazione, ma, al di là dell’aspetto politico, che può essere condiviso o no dagli italiani, è l’emarginazione e l’isolamento della comunità italiana che determina l’esodo. L’esodo è drammatico perché non è figlio di un decreto. Se ci fosse stato un decreto del governo di Tito che espelleva gli italiani, paradossalmente sarebbe stato più semplice da un punto di vista psicologico perchè sarebbe stato un obbligo, invece l’esodo è una scelta obbligata, ma una scelta, e credo che gli esuli di prima generazione, quelli che sono partiti quarantenni o cinquantenni, con le valigie e i bambini per mano si siano portati per tutta la vita il dubbio di avere forse sbagliato. L’esodo è fatto di partenze casuali, successive, non programmate, perché, tranne la città di Pola, che è stata per due anni occupata dagli americani ed è diventata iugoslava nel 1947, negli altri casi si tratta di partenze casuali e successive. C’è un libro bellissimo di Fulvio Tomizza, che si intitola “Materada”, che vi consiglio di leggere, anche perché se uno vuole capire la storia contemporanea non deve leggere i libri di storia. Lo dico contro i miei interessi professionali, ma lo storico contemporaneo è colui che ricostruisce l’identità di una generazione.

Ora, l’identità di una generazione è fatta di ciò che si celebra e di ciò che si demonizza, di ciò che si rimuove e di ciò che si esalta. Il letterato, invece, ha un rapporto emotivo con la materia, la fa capire perché la vive dentro.

Pensate, per esempio, alla resistenza partigiana raccontata dagli storici oppure raccontata da Beppe Fenoglio ne “Il partigiano Johnny” o da Italo Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno”. Letta dagli storici è una visione manichea del mondo: il bene da una parte e il male dall’altra; letta in Fenoglio o in Calvino è piena di contraddizioni, com’è naturale che sia la storia. Sia Fenoglio sia Calvino erano due partigiani combattenti, non è che stessero dall’altra parte.

Pensate alla liberazione dell’Italia meridionale dagli anglo-americani: letta nei libri di storia è sorrisi, chewing-gum, cioccolata e jeans; letta ne “La ciociara” di Alberto Moravia è stupri e violenze; letta ne “La pelle” di Curzio Malaparte è il degrado morale e civile di Napoli nel momento in cui ci sono gli anglo-americani. Vedete, “Ha da passà ‘a nuttata” di Eduardo De Filippo si riferisce a Napoli liberata dagli americani, non all’occupazione dei tedeschi, che era durata pochi giorni. Ebbene, “Materada” racconta come sparisce questa comunità. È un paesino di campagna dove c’è una maggioranza di italiani, dove ad un certo punto si chiude la farmacia, perché il farmacista ha chiuso le ante con i chiodi ed è partito. Qualche giorno dopo, due famiglie con le quali ci si ritrovava abitualmente, mettono tutte le loro masserizie su un carro e se ne vanno. Poi chiude l’osteria dove si era abituati ad andare a prendere un bicchiere di vino dopo una giornata di lavoro e non c’è più un posto dove andare. Poi le vie, quelle strade che erano piene di bambini, di vociare, della freschezza di una comunità, diventano silenziose, e ci si accorge che sono andati via tutti tranne – diceva Fulvio Tomizza – quelli che erano troppo poveri per potersi portare via la propria miseria.

Ecco, questo è l’esodo. E questi esuli, 250 o 300 mila, le quantificazioni sono approssimative perché una parte di loro non si è fermata in Italia, si è trasferita in Australia o in Canada, ma se si considera quanti sono gli italiani che abitano in Istria al censimento del ‘39 e quelli che ci sono nel censimento successivo, fatto negli anni Cinquanta dal Governo Jugoslavo, ci si accorge che il 90 per cento della comunità se n’è andata. Questi profughi arrivano in un’Italia che è uscita dalla guerra, che ha, nelle città del nord, un terzo delle case bombardate, che ha la fame, e quando si ha fame, non si è mai teneri con quelli che arrivano, che siano italiani come noi o che siano di un’altra nazionalità.

Questi profughi vengono sparpagliati in 109 campi, in tutt’Italia. In alcuni casi, sono vecchie caserme dismesse. A Roma sono le baracche usate dagli operai per costruire l’Eur prima della guerra. A Fertilia, vicino ad Alghero, una colonia agricola abbandonata. In certe zone dell’Italia centrale, campi di prigionieri anglo-americani svuotati. E lì vivono per anni. Io ricordo di aver fatto una conferenza del genere molti anni fa a Tortona, vicino ad Alessandria, dove c’era una comunità significativa di giuliano dalmati che erano stati ospitati nella caserma “Passalacqua”, che era una caserma abbandonata dall’esercito e che adesso è diventata la sede del Municipio. Ad un certo punto, si è alzata una signora anziana che, piangendo, mi dice: “Quando ero adolescente aprivo le finestre della mia camera e vedevo il mare Adriatico che si infrangeva sugli scogli di Rovigno. Nel giro di tre settimane, sono finita a Tortona, in corso Alessandria 62, perché ci vergognavano a dire che abitavamo nel campo profughi e quindi davamo l’indirizzo civico. E lì, dove c’erano delle camerate con delle coperte di lana appoggiate su dei fili che separavano il box di una famiglia da quello di un’altra famiglia; dove non c’era una parola, un pianto, un sussurro che non venisse sentito da una parte all’altra, dove c’erano i bagni e la cucina in comune, sono vissuta per un’emergenza di sette anni”. Questi sono i campi profughi.

L’esule non è un emigrante. L’emigrante è colui che scappa dalla miseria, scappa dalla paura, ma fa una scommessa sul proprio futuro. Tutti gli emigranti sognano di tornare un giorno a casa loro col vestito buono e le scarpe lucide per far vedere che ce l’hanno fatta.

L’esule è colui che lascia tutto ciò che ha; non fa nessuna scommessa sul proprio futuro; chiude semplicemente una porta sul proprio passato, perché lascia le case, il cimitero, le tradizioni, le abitudini, i paesaggi, i linguaggi e tutto ciò a cui era stato abituato. È come se domani ognuno di noi dovesse chiudere la propria casa e andare in un campo profughi in un’altra regione d’Italia o in un’altra parte d’Europa.

Come mai per tanti anni non si è parlato di questi avvenimenti? Prima è stata evocata l’omissione dai libri di storia.

Vi confesso che mi sono laureato nel ’75 ed ho insegnato per qualche anno storia e filosofia nei licei, ebbene, io non ho mai parlato, in quegli anni, ai miei studenti di foibe, ma non perché volessi essere omissivo, ma perché nessuno me ne aveva mai parlato; perché io sono torinese e figlio di torinesi; perché non ho mai avuto un amico del Nord-Est; non ho mai avuto una fidanzata che provenisse da quelle zone, per cui non ne sapevo nulla. Come mai questo silenzio così forte? Credo per tre ragioni.

La prima è un silenzio internazionale. Nel 1948, Tito è il primo leader comunista che entra in conflitto con Stalin. Viene accusato di deviazionismo ed espulso dal Cominform, cioè dall’organizzazione dei partiti comunisti internazionali, e da quel momento per l’Occidente diventa un interlocutore. Quando eravamo bambini noi, per radio si parlava di Tito come uno dei leader dei Paesi non allineati, non come di un leader comunista. Nel momento in cui un capo di Stato diventa un interlocutore, non lo si mette in difficoltà con domande imbarazzanti.

Sino al giugno del ’48, l’ambasciatore americano e quello inglese a Belgrado, mandano periodicamente delle liste di infoibati chiedendone ragione; dal giorno dopo più nessuna richiesta viene fatta. Vi è una ragion di Stato internazionale che porta al silenzio delle foibe.

Vi è poi un silenzio di partito. Il Partito Comunista Italiano aveva tutto l’interesse a non parlare di foibe, perché era un partito che in politica interna funzionava da partito nazionale, ma in politica estera ragionava da partito internazionalista. Esiste un documento, che peraltro è stato pubblicato dall’Istituto Gramsci, quindi è insospettabile da questo punto di vista, una lettera che Togliatti scrive a Bianco, che era il suo uomo a Trieste, in cui, nell’autunno del ’44, gli dice: “Quanta più parte d’Italia diventerà jugoslava, tanta più parte d’Italia sarà libera; quanta più parte d’Italia resterà sotto gli inglesi e gli americani, tanta più parte d’Italia sarà sotto il regime imperialista”, con una frase che riproduceva il linguaggio del tempo.

È chiaro che era scomodo parlare di foibe; era scomodo perché metteva in evidenza le contraddizioni di essere insieme partito nazionale e partito internazionalista, e poi perché metteva in evidenza anche delle complicità. Badate, ci sono dei comunisti che sono stati infoibati dall’esercito di Tito perché dissidenti rispetto alle prospettive dell’annessione; ma ce ne sono anche altri che sono stati in qualche modo complici, perché è vero che i prelevamenti delle persone sono stati fatti da soldati dell’esercito di Tito, serbi, croati o bosniaci, o che provenivano da altre Regioni, ma chi è che diceva: “Andate a prendere il tale che sta al secondo piano, scala A”? Evidentemente, qualcuno dava queste indicazioni.

Per il Partito Comunista, quindi, era importante non parlare di Foibe. Però, non si può pensare che in Italia non si sia parlato di una cosa per tanti anni di seguito perché non lo voleva Togliatti, non lo volevano i comunisti. Perché Togliatti è uscito dal Governo nel maggio del ‘47 ed il Partito Comunista, in quanto tale, non è più entrato nel Governo. Quindi, se vi è stato un silenzio così tombale, è perché oltre a questi due silenzi, c’era un silenzio di Stato.

Il silenzio di Stato nasce dal fatto che quando la guerra è finita, nel ’45, l’Italia ha fatto finta di essere un Paese vincitore. Io non so se studiando oggi un giovane ha la percezione che l’Italia ha perso la Seconda guerra mondiale. Io quando ho studiato non avevo quella percezione, perché parlavano del 25 Aprile, delle manifestazioni partigiane, della Liberazione. Invece l’Italia ha perso la guerra. Esiste un modo scientifico per capire se un Paese ha perso o vinto una guerra. Si guarda la cartina geografica prima della guerra e dopo: se si è ingrandita è perché ha vinto; se si è rimpicciolita è perché ha perso. Da che mondo è mondo, è così.

Ora se si guarda la cartina del ‘39 e quella che il 10 febbraio del ‘47 esce dalle trattative di pace di Parigi, ci si accorge che il confine nord-orientale è completamente cambiato. Anche dalle mie parti ci sono state delle rettifiche nel confine nord-occidentale: semplicemente il confine prima della guerra passava sui colli verso il versante francese, poi fu spostato verso il versante italiano. In Piemonte e in Val d’Aosta diciamo che abbiamo perso dei pascoli di montagna.

Nel Nord-Est, invece, si sono perse tutta l’Istria e tutta la parte della Dalmazia, tutte le Isole Quarnerine.

Ebbene, noi abbiamo rappresentato l’Italia come un Paese di vincitori e abbiamo cercato di immaginare che tutta la colpa del Ventennio e della guerra fossero di Mussolini e del Re, uno responsabile politico e l’altro responsabile istituzionale; uno eliminato in Piazzale Loreto e l’altro eliminato con il Referendum del 2 Giugno.

Potevamo rifarci una verginità e ripartire tutti, come se il Regime fosse stato davvero soltanto una parentesi, la malattia sul corpo sano, come diceva Benedetto Croce, o il filo di ferro della repressione.

Il fascismo, invece, è stato un regime che ha goduto del consenso della stragrande maggioranza della classe dirigente italiana.

È vero, infatti, che il totalitarismo è fatto di violenza e di bavaglio alle opposizioni; ma il regime totalitario è fatto anche e soprattutto di controllo dell’educazione e dell’informazione.

Ebbene, chi scriveva i libri di testo delle scuole? Chi insegnava nelle università? Chi erano i grandi responsabili dei centri politici ed economici del Paese? Chi erano i grandi burocrati dello Stato? I vertici delle forze armate? I vertici della Magistratura? È tutto quello che ha fatto il regime. Ma per ragioni di equilibri sociali, di normalizzazione, per evitare il cosiddetto vento del nord rivoluzionario, si è voluta far transitare questa classe dirigente da prima a dopo senza colpo ferire.

Che cos’è cambiato in Italia nel ’45? È cambiata la classe dirigente politica. I vari Mussolini, Nenni e Togliatti sono spariti, ma tutta l’altra classe dirigente, i professori universitari erano tali prima e tali dopo; i vertici delle forze armate non sono mica cambiati, vi è stata una continuità nello Stato.

Ora, perché questo traghettamento fosse possibile, bisognava fare finta di avere vinto, perché se accettavamo l’idea di avere perso, dovevamo domandarci di chi erano le responsabilità di quello che era accaduto, e non potevamo cavarcela dando la responsabilità soltanto a Mussolini o soltanto al Re, che sicuramente avevano responsabilità primarie.

Allora si è cominciato a tacere ciò che era scomodo. Per esempio, ancora oggi non si conosce esattamente il numero dei soldati italiani fatti prigionieri durante la guerra, perché erano prigionieri dei tedeschi, dei russi, degli americani, degli inglesi, dei francesi, di tutti.

Il prigioniero ricorda la sconfitta e ancora oggi non si sa quanti fossero. Non si parlava del ’40-’43, dell’occupazione militare della Jugoslavia, dei crimini di guerra, che pure sono stati commessi anche da alcuni nostri reparti e passati sotto silenzio. Non si parlava delle responsabilità che, più in generale, avevano avuto gli organi di stampa e il mondo della cultura di quel periodo. Non si parlava dei fascisti.

Nella nostra cultura repubblicana il fascista chi è stato? Colui che ha partecipato alla Repubblica Sociale Italiana, che era generalmente un giovane, più o meno invasato, di 16/18 anni. Ma coloro che, invece, erano stati fascisti per vent’anni e che nel Regime avevano lucrato e acquistato potere, prestigio e denaro, sono usciti assolti. Ma soprattutto non si parlava di foibe e di esodo, perché nessun Paese che vince la guerra, dopo la fine della guerra, ha 10 mila morti e 300 mila profughi. Sono solo i Paesi sconfitti che, dopo la fine della guerra, pagano questi prezzi.

Ecco, dunque, perché il silenzio di Stato. Non parlare di foibe legittimava una memoria e un’auto-rappresentazione del passato che ci ha immaginato come un Paese di vincitori ed ha evitato di fare i conti con quello che è accaduto prima.

Per non prendere altro tempo e lasciare la parola al Sindaco, credo che ritornare su questi argomenti sia, da un lato, un dovere morale nei confronti di coloro che hanno pagato i prezzi della morte e dell’esodo, soprattutto quelli di prima generazione. In secondo luogo, è importante per capire i meccanismi per cui le cose sono accadute. Perché, vedete, la memoria è forte e parla quando sono vivi i protagonisti, perché esiste un impatto emotivo; oppure quando i protagonisti hanno cresciuto i loro figli in quella memoria.

La nostra generazione ha vissuto l’antifascismo e la resistenza come degli insegnamenti forti non perché eravamo tutti figli di partigiani o di reduci di Russia, eravamo figli di gente che la guerra l’aveva vista e ce la raccontava. Abbiamo imparato che cos’è la pace sentendo raccontare la paura della guerra; abbiamo imparato cos’è la libertà sentendoci raccontare che cosa voleva dire, prima di parlare, girarsi per vedere se c’era qualcuno di troppo che ascoltava; abbiamo imparato che cos’è il benessere, sentendo i racconti di cosa voleva dire aver fame.

Oggi quella memoria non esiste più, ma anche la memoria giuliano dalmata non esiste più, intanto perché è stata sempre una memoria chiusa all’interno del confine nord-orientale della comunità dei profughi, e poi perché comunque sono passati settant’anni. Allora se vogliamo che la storia insegni, siccome sono passati tanti anni dobbiamo cercare di studiarla per capire le ragioni che hanno reso possibile. Poi viviamo in una cultura che ha troppo la tendenza a esprimere il passato soltanto in termini di orrore, il passato ma anche il presente, senza cercare di spiegare le ragioni. Faccio un esempio. 10-15 giorni fa c’è stato il Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Credo che se ci viene chiesto qual è stato l’orrore maggiore che l’umanità ha commesso è chiaro che ci vengono in mente le camere a gas, i forni crematori, però domandiamoci dove sono successe quelle cose, mica in un Paese di ignoranti, sono successe nella Germania che aveva il più alto tasso di alfabetizzazione al mondo, dove si erano formati Bertold Brecht, Albert Einstein, Thomas Mann, dove da due secoli si studiavano i valori dell’uomo. Eppure in un Paese così colto, così evoluto, così raffinato quello che noi oggi consideriamo orrore è stato condiviso fino alla fine da milioni e milioni di tedeschi per paura, per viltà, per indifferenza, per convinzione, ma fino alla fine. La grande responsabilità del popolo tedesco – diceva Primo Levi – è stato il silenzio sui lager.

Allora cerchiamo di capire come mai è accaduto e quando parliamo, per esempio, dei crimini dell’esercito italiano in Albania o in Grecia o Jugoslavia o in Etiopia cerchiamo di capire perché è successo. Non è che gli italiani – i nostri nonni che hanno fatto le guerre in quei posti – fossero cattivi. Per commettere il male non bisogna essere cattivi. Il male, come diceva Hannah Arendt, è banale. Il fatto che qualcuno ci abbia fatto credere che quello che è bene è male e quello che è male è bene, così nascono le tragedie. Quest’ottica ce l’abbiamo anche nei confronti del presente. L’ISIS sono convinto che è una minaccia straordinariamente pericolosa, ma se la raccontiamo soltanto con l’aviere giordano fatto prigioniero e poi bruciato nella gabbia o i tagliatori di gole che ogni tanto vengono trasmessi da dei video, facciamo immaginare che l’ISIS sia una forma di patologia, sia una forma di degenerazione genetica e come mai ci sono migliaia di persone laureate nelle università occidentali che vanno a fare i foreign fighters? Come mai ci sono aree dove quegli eccidi vengono salutati con entusiasmo? Forse dobbiamo andare un po’ oltre l’orrore perché c’è molto di più e quindi molto di peggio dell’orrore.

La gravità della storia è che le tragedie sono successe con il consenso. Cerchiamo di capire come mai nascono quei consensi perché gli strumenti che li hanno resi possibili possono essere usati ancora oggi provocando derive di altro genere, ma comunque sempre derive. Grazie.

 

Gianni Oliva

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.