Le nuove prospettive della politica italiana.
La fine delle contrapposizioni ideologiche apre una nuova fase nel governo
del Paese
L’esito delle elezioni politiche del 13 aprile e delle amministrative di Roma del 27, con la vittoria inaspettata di Gianni Alemanno e la successiva ascensione di Gianfranco Fini alla Presidenza della Camera, può essere valutato come una svolta storica, come hanno fatto un po’ tutti: la fine di due o tre epoche a seconda delle prospettive.
Un evento che viene giudicato simile al 18 aprile del 1948, che escludeva per decenni dal potere il PCI, consentendo l’adesione dell’Italia al blocco occidentale, alla NATO, alla Comunità Europea. Altri, più modestamente, vi vedono la fine della fase transitoria aperta da Tangentopoli nel 1993-’94, segnata dal crollo dei partiti del CLN, con la singolare eccezione di quel PCI che la caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto far scomparire fin da allora. E invece furono travolti dagli scandali «solamente» la DC, il PSI, il PSDI, il PRI e il PLI; sigle ormai sconosciute ai giovani di oggi; tutti facenti parte di quell’arco costituzionale che garantiva l’esclusione dal potere dei neo-fascisti.
Ne seguì il fenomeno Berlusconi, che riempiva un vuoto politico-sociale per motivazioni storiche talmente consistenti (in natura ogni vuoto tende ad essere riempito da qualcosa di nuovo) che soltanto la cecità di una parte della sinistra estrema non riuscì a capire. E non capisce ancora oggi, mostrandosi frastornata, come se fosse caduta da una giostra immaginaria.
Tanto immagimaria era ormai l’Italia che loro avevano nella testa. Fenomeno, il berlusconismo, demonizzato nell’immaginario collettivo da una stampa sorretta dai poteri forti, che dopo essersi sbarazzata dei partiti storici a consenso popolare, si credeva aperta la strada al controllo assoluto del Paese, imprigionando i DS nella coalizione con gli ex democristiani di sinistra. Oggi Berlusconi con il suo PDL, inventato sul predellino di Piazza San Babila, si è preso la rivincita, dimostrando di rappresentare più di metà del Paese.
Ma nel frattempo anche i DS, con il congresso di scioglimento dell’aprile 2007 e la fondazione del PD, hanno trovato una collocazione nuova, dando vita con coraggio ed esperienza antica, ad un soggetto politico più duttile e aperto alle esigenze dell’Italia e dell’Europa di oggi. Le sconfitte del 13 aprile e del 17 a Roma non significano di per sé la vanità del cambiamento e tanto meno delle ragioni che lo hanno determinato. Non sarà una cammino facile, perché la sinistra italiana ha saltato la lunga esperienza social-democratica di altre sinistre europee. Ma questo potrebbe anche risultare un vantaggio, visto che il modello social-democratico è anch’esso al tramonto.
Del resto anche per la nuova destra il cammino non sarà facile, con un Paese incrostato di privilegi e di corporazioni arroccate a difendere posizioni acquisite o a gettarsi sulla vittoria per avere mano libera nel nuovo sviluppo delle infrastrutture di cui l’Italia ha bisogno urgente.
Il risultato più solido e significativo dell’attuale svolta è l’affermarsi di due partiti avversari, non più divisi da un odio ideologico, ma da programmi politici ed economici diversi e a volte nemmeno contrastanti. La contrapposizione fascismo-antifascismo diventa un giudizio storico inappellabile, non più una discriminante politica da usare strumentalmente.
L’evoluzione del clima politico, il ruolo del Ricordo
A questa evoluzione del clima politico e culturale ha contribuito non poco il riconoscimento delle nostre vicende delle Foibe e dell’Esodo giuliano dalmato con l’istituzione del Giorno del Ricordo.
È sintomatico che tale argomento sia entrato nelle dichiarazioni post-elettorali di Silvio Berlusconi, che ha ricordato l’incontro Fini-Violante a Trieste del 1996 come inizio di una presa di coscienza comune delle diverse anime della Resistenza e quindi del significato unificante da attribuire alla Liberazione del 25 aprile 1945; che per noi rappresentò invece l’inizio di un nuovo incubo sotto un’occupazione straniera ancora più cupa e
sanguinaria.
Sulla stessa linea il discorso post-elezioni del Presidente della Repubblica e quello di insediamento del nuovo Presidente della Camera. Addirittura sorprendenti sono le parole di Alemanno: «I valori della Resistenza non si discutono, sono valori di libertà. Non c’è nessuna polemica ma grande rispetto e radicamento. Poi c’è la componente d’odio e di guerra civile
sulla quale siamo chiamati a un’opera di verità […] Ma qualsiasi opera di chiarimento storiografico e di ricucitura nazionale non mette in discussione i valori della Resistenza, fondativi della Costituzione»
La verità è che gli Esuli istriani, fiumani e dalmati sono stati i primi ad avvertire, per la sensibiltà acquisita attraverso le sofferenze e le emarginazioni subite e per la coraggiosa elaborazione e rivendicazione del loro sacrificio, che la guerra civile del 1943-’45 era finita da un pezzo.
Che di questa guerra la vicenda delle Foibe e della pulizia etnica delle loro terre natali era sì una tragica appendice, ma era al tempo stesso e ancor più il portato di uno scontro tra nazionalismi esasperati e totalitarismi ideologici, che aveva investito tutta l’Europa
centro-orientale.
Gli Esuli hanno aiutato tutti a capire che la loro tragedia non era una storia marginale di una terra di frontiera. Ma un passaggio obbligato e decisivo nel cammino dell’Europa verso la democrazia e il superamento delle contrapposizioni nazionali.
Chi si ostina a non capirlo dovrebbe riflettere sulla significativa coincidenza: il fatto che le ultime elezioni politiche abbiano lasciato fuori dal Parlamento proprio chi non aveva voluto votare la legge sul Giorno del Ricordo. L’Italia non si è sentita rappresentata da chi non aveva preso le dovute distanze dagli slogan del tipo «Tito ce lo ha insegnato: le foibe
non sono reato».
Adesso occorrerà gestire con senso di responsabilità questa nuova situazione, confermando la nostra volontà di ricostruire una memoria comune della Nazione e di vedere riconosciuti con onestà quei diritti personali che sono l’essenza della Costituzione europea e non possono essere negati soltanto a noi, che dei totalitarismi del Novecento siamo stati vittime.
Lucio Toth