Il 10 giugno del 1918 il futuro ammiraglio originario di Milazzo sventava un attacco nemico colpendo il cacciatorpediniere Santo Stefano. Accusato di fascismo finì i suoi giorni in Sicilia dimenticato da tutti
di Salvatore Falzone
Trentatré anni dopo, silurato da un cancro al polmone destro, il "corsaro di Milazzo" disse che avrebbe preferito morire a bordo del suo Mas, guardando il fumo della "Santo Stefano" che affondava al largo di Premuda.
Ma all´alba del 10 giungo 1918, Luigi Rizzo, capitano di corvetta, a tutto pensava tranne che alla morte. Con una mossa da volpone, era riuscito a bloccare la strategia di guerra della flotta austriaca assicurando all´Italia il controllo dell´Adriatico. Era euforico: aveva regalato alla Regia Marina l´azione più gloriosa del conflitto mondiale. Col risultato che quel giorno, insieme alla corazzata, andò in fiamme tutto il piano dell´ammiraglio Nikolaus Horty, capo di stato maggiore della marina austro-ungarica, che ai suoi uomini aveva dato disposizioni perentorie: l´11 giugno due esploratori e tre cacciatorpediniere avrebbero dovuto attaccare le forze mobili dello sbarramento del canale di Otranto, mentre otto sommergibili si sarebbero scagliati contro le navi italiane davanti a Brindisi e quaranta idrovolanti avrebbero bombardato a oltranza le città della costa, posizionando mine sulla rotta d´uscita. Per questo il 9 sera l´ammiraglio austriaco ordinò alle quattro navi di linea dislocate a Pola di trasferirsi nel Basso Adriatico, scortate da una decina di cacciatorpediniere. Tra queste ce n´era una chiamata "Szent Istvan", Santo Stefano: la più giovane e veloce di tutte, armata di 12 cannoni in quattro torri trine e con un equipaggio di 970 uomini.
Nella stessa notte due Mas italiani, il 15 e il 21, comandati dal siciliano Rizzo, rastrellavano le acque croate tra Gruizza e Selva sotto la rada di Trieste. E siccome non trovarono le mine che cercavano, alle tre e un quarto uscirono dal canale in direzione delle torpediniere ferme al largo. All´improvviso, a circa sei miglia dall´isolotto Lutostrak, il capitano si accorse di una nuvola nera all´orizzonte e capì subito che non si trattava dei loro lanciasiluri: non avrebbero potuto emettere tanto fumo e, inoltre, arrivavano da Nord. Così si convinse che le esalazioni scure provenivano da unità leggere nemiche uscite a caccia di navigli italiani. Approfittando della luce incerta, decise di prevenirne l´attacco invertendo la rotta e dirigendosi verso le navi nemiche: ma a bassa velocità, per evitare onde e rumori.
La manovra era audace e di riuscita dubbia, anche se il regista era un cavallo di razza come Rizzo, che a mare era nato nel 1887 e che a 23 anni era già pilota del porto di Messina.
Avvicinandosi, il capitano vide due grosse navi di linea protette da dieci cacciatorpediniere a poche centinaia di metri. «Allora decisi di eseguire il lancio alla minima distanza possibile – scrisse l´indomani nel rapporto al comando militare marittimo di Ancona – e perciò avanzai in modo da portarmi all´attacco passando fra i due caccia che fiancheggiavano la prima nave. Per scapolare il caccia sulla mia sinistra – continuava – portai la velocità da 9 a 12 miglia, riuscendo senza essere scorto a oltrepassare di 100 metri la linea dei due caccia e lanciare i due siluri contro la prima nave a una distanza di non oltre 300 metri». Erano le tre e trenta. I siluri sganciati dal Mas 21 su cui stava il comandante Giuseppe Aonzo non riuscirono a colpire il "Thegetoff", ma quelli del Mas 15 di Rizzo raggiunsero con successo il "Szent Istvan". Che due ore e mezza dopo colava a picco.
Mentre dalle torpediniere austriache volavano i primi telegrammi "urgenti" all´ufficio centrale, una delle siluranti di scorta, la torpediniera 76, si accorse dei due battelli italiani e vi si diresse contro. Rizzo aveva già imboccato la via del ritorno quando il cacciatorpediniere austriaco si mise sulla sua scia a una distanza di 100 metri e aprendo il fuoco all´impazzata. «Non usai le mitragliere – scrisse ancora il capitano – ma lanciai una bomba antisommergibile». Non scoppiò. Allora ne lanciò un´altra, che stavolta esplose vicino alla prua dell´imbarcazione austriaca costringendola a fermarsi di botto mentre lui guadagnava distanza verso la costa marchigiana: «alle ore sette entravo nel porto».
Da quel giorno Luigi Rizzo diventò "l´eroe dei Mas". Il suo petto fu ricoperto di croci e medaglie, la sua fama omerica di guerriero sprezzante del pericolo fece il giro del mondo e l´impresa di Premuda segnò una vera epopea, soprattutto negli anni del fascismo. Onori, celebrazioni, titoli. Venne promosso ammiraglio, lo nominarono conte di Grado, gli dedicarono una diga e riconobbe il suo nome in quello delle vie e delle piazze di mezzo Stivale. Perfino il severo ammiraglio David Beatty, comandante della Great Fleet, si complimentò con lui per quell´azione temeraria che coronava una carriera già ricca di successi: infatti nel maggio del 1917 Rizzo aveva catturato due piloti di un idrovolante austriaco ammarato per avaria, a dicembre dello stesso anno aveva affondato la corazzata guardacoste "Wien" nel largo di Trieste e difeso strenuamente le foci del Piave, e a febbraio dell´anno successivo, cioè quattro mesi prima della sua canonizzazione terrena, aveva partecipato alla "Beffa di Buccari" con Gabriele D´Annunzio, che dopo l´impresa di giugno gli appiccicò addosso l´appellativo marziale di "affondatore".
Volontario a Fiume nel 1919, Rizzo lasciò il servizio attivo un anno dopo con il grado di capitano di fregata. Nel 1929 lo nominarono presidente della Società di Navigazione Eola e nel 1936 non ci pensò due volte a partire volontario in Etiopia. Ma lui rimase sempre ciò che era: un "tuareg" del mare, un siculo berbero dalla pelle scura e dalla tempra inossidabile. Da presidente dei Cantieri Riuniti dell´Adriatico, nel 1943, ordinò il sabotaggio dei transatlantici e dei piroscafi per evitare di farli cadere in mano tedesca: fu deportato in Germania con la figlia Guglielmina e rimpatriato soltanto alla fine del secondo conflitto mondiale.
L´esperienza dell´esilio lo fece soffrire. Ma non come quella degli ultimi anni di ardito bistrattato e caduto nel dimenticatoio. Con i capelli brizzolati e i baffetti di sempre, gli toccò assistere all´ascesa dei "vigliacchi" e allo spettacolo penoso dei voltagabbana saliti sopra il carro dei vincitori. Nel 1949 subì un anche processo di epurazione con l´accusa, poi risultata infondata, di avere tratto profitto dal regime. In ogni caso il clima dell´Italia di quegli anni diventò per lui irrespirabile: soprattutto dopo che abolirono la festa della Marina perché troppo legata al ricordo dell´azione di Premuda e al suo nome di fascista pensionato. Lucido e austero, Rizzo si rendeva conto di essere un pesce fuor d´acqua, anche se non perse mai il senso militaresco del decoro e una dignità ogni giorno più malinconica. Forse riconobbe nell´avvento dei tempi nuovi il presagio della propria fine.
Certo è che si ritirò nella sua Milazzo, trascorrendo il tempo che gli restava seduto in riva al mare. Aveva sessantaquattro anni e un´aria disincantata. Ormai l´orgoglio affondato della marina austriaca era una reminiscenza come altre. Dimenticato da tutti, dimenticò tutto. Tranne le storie di mare e di guerra che gli raccontava suo padre quando era bambino.