di PIERO RAUBER
TRIESTE La sua causa di beatificazione era stata avviata nel 1957 su iniziativa dell’arcivescovo Antonio Santin, istriano come lui. Ma erano anni, quelli, intrisi di silenziosi imbarazzi attorno ai crimini titini. Don Francesco Bonifacio, il sacerdote nativo di Pirano infoibato nel settembre del 1946 nei dintorni di Grisignana diventa beato.
Don Bonifacio diventa beato a 51 anni di distanza dai primi difficili passi di quella causa. Diventa beato – il primo infoibato a essere dichiarato tale – in un mondo che ha voltato pagina. Un mondo senza più zone A e B, né confini da attraversare. E ad accogliere per primo «con grande gioia» tale annuncio, subito rimbalzato dal Vaticano a Trieste, c’è oggi un vescovo a sua volta istriano: monsignor Eugenio Ravignani.
Proprio ieri, infatti, papa Benedetto XVI ha firmato il decreto di beatificazione del «Servo di Dio Francesco Bonifacio». È l’atto decisivo con cui la Chiesa di Roma riconosce il «martirio in odio alla fede» di don Bonifacio, l’uomo ordinato sacerdote a 24 anni nella Cattedrale di San Giusto e morto dieci anni dopo, mentre faceva il cappellano nella Curazia di Villa Giadrossi. Era il prete che confortava in quel clima di terrore civile il popolo delle colline tra Buie e Grisignana, portando il verbo cristiano e raccogliendo attorno a sé i giovani attraverso la forma aggregativa dell’Azione cattolica. Un prete troppo scomodo per la propaganda antireligiosa della Jugoslavia di allora, ma che nonostante le intimidazioni tirò dritto fino per la sua strada fino all’ultimo.
Le testimonianze, le stesse esaminate in via conclusiva dal 1998 a oggi dalla Congregazione vaticana per la causa dei santi, portano a una data precisa: l’11 settembre 1946. Quel giorno, all’imbrunire, don Francesco Bonifacio stava tornando da Grisignana dove si era recato per la confessione. Ma a Villa Giadrossi non ci arrivò mai più. Lungo il percorso che lambiva le colline venne avvicinato, fermato e prelevato dalla Guardia del popolo, i miliziani titini. Li videro quindi sparire nel bosco. È praticamente certo che prima di essere gettato in qualche cavità della zona (le sue spoglie non furono ritrovate) il sacerdote abbia dovuto pure soffrire per le violenze infertegli dai suoi carnefici.
Tale ricostruzione a sostegno della tesi del «martirio in odio alla fede» – che è uno dei due canali per il riconoscimento della beatificazione, l’altro è l’accertamento di uno o più miracoli – è stata presentata dieci anni fa alla Congregazione per la causa dei santi dal locale tribunale canonico, a chiusura di un lungo processo diocesano. Ne facevano parte allora, come presidente e vicepresidente, don Ettore Malnati e monsignor Giuseppe Rocco, che a metà degli anni Novanta riuscirono a chiudere il cerchio attorno ai racconti dei testimoni superstiti, più disposti rispetto ad anni addietro a dare la loro versione con dovizia di particolari. L’Europa e il suo confine orientale, d’altronde, stavano metabolizzando la fine del comunismo e la disgregazione della Jugoslavia, aprendo varchi sempre più ampi tra le maglie della paura e dell’omertà sui mea culpa storici.
Lo stesso Giovanni Paolo II, il papa polacco che contribuì a far crollare il Muro, parlò apertamente delle vittime dei regimi comunisti come di «martiri del nostro secolo».
La causa promossa nel ’57 dall’arcivescovo Santin, a riprova dell’aria che si era respirata in epoca precedente, era rimasta ingolfata per oltre un decennio. A sbloccarla fu nel ’71 proprio monsignor Ravignani, in un ideale passaggio di testimone tra due uomini di Chiesa istriani. Quel testimone passò poi al vescovo Lorenzo Bellomi, che vigilò sull’iter anche quando la malattia ne stava minando il fisico.
«Con grande gioia – si legge nella nota inviata dalla diocesi e firmata dal vescovo Ravignani – annuncio alla Chiesa Cattolica che è in Trieste, alle Chiese Sorelle di Capodistria (Slovenia) e di Parenzo-Pola (Croazia) ed alla altre Chiese e Comunità cristiane presenti a Trieste che il Santo Padre Benedetto XVI in data 3 luglio 2008 ha riconosciuto il martirio del venerabile Servo di Dio don Francesco Bonifacio, morto in odium fidei l’11 settembre 1946».
«Attendiamo con serena fiducia – prosegue la nota – che venga concordato e comunicato il luogo e la data della solenne beatificazione di don Francesco Bonifacio, presbitero della nostra Chiesa Tergestina e solerte formatore di giovani all’apostolato nelle file dell’Azione Cattolica».
La Chiesa, la città e la storia si vedono dunque riconoscere il primo beato martire della Venezia Giulia vittima delle foibe. Al suo nome potrebbe aggiungersi, con modalità e tempistiche oggi non note, quello di don Miro Bulešic – il vicerettore del seminario croato di Pisino ucciso il 24 agosto 1947 da una coltellata alla gola in seguito a un agguato nella canonica di Lanischi – per il quale è in corso un’analoga causa di beatificazione per «martirio in odio alla fede».