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Otto saggi sulla Jugoslavia con base documenti inediti (L’Opinione 22 lug)

di Marco Bertoncini

 

Croazia, Slovenia, Macedonia, Serbia, Kossovo… E’ l’elenco, parziale, delle repubbliche sorte dallo smembramento della Jugoslavia titina. Grecia, Bulgaria, Ungheria, Albania… E’ l’elenco, parziale, dei Paesi confinanti con gli Stati della dissolta Jugoslavia. Questo, oggi. Eppure, se ci spostiamo nella primavera del 1941, dopo la conquista del Regno di Jugoslavia, per opera delle truppe dell’Asse, sembra che tensioni e problemi, massacri e rivalità, divisioni e prevaricazioni, Stati di nuova indipendenza e rivendicazioni territoriali, ci accorgiamo che la storia sembra essersi già presentata, in simili e spesso identiche condizioni, quasi settant’anni addietro. Allora come oggi, spuntavano le ambizioni per le “grandi” nazioni: la Grande Albania, la Grande Bulgaria, la Grande Croazia, per tacere di quei Paesi che avrebbero voluto costruire “grandi” i propri confini, ma non potevano per le condizioni di sconfitta: Slovenia, Serbia… Eppoi dominavano, come dal crollo del comunismo dominano in maniera esplosiva, le divisioni etniche, religiose, politiche, sociali, tribali, esasperate da primitive concezioni che considerano la vita umana immeritevole di valori e di tutela (la vita dei nemici, va da sé). Delle difficoltà di far politica nei Balcani si era perfettamente reso conto il maestro dei politici, il principe di Bismarck, il quale notò: “Occorre far capire a quei ladri di pecore (l’espressione è riferita ai maggiorenti balcanici) che i governi europei non hanno alcuna necessità di assecondare i loro desideri e le loro rivalità”. Nulla pare essere cambiato: ne è conferma la situazione creatasi con l’indipendenza kossovara, prodromica di tensioni addirittura lontane migliaia di chilometri, come avviene nel Caucaso.

 

A illustrare il mondo già jugoslavo durante il periodo in cui, con pesanti tributi di sangue, agirono le truppe italiane, giunge il volume “L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-1943)”, che esce presso “Le Lettere” nella preziosa collana “Biblioteca di Nuova storia contemporanea”, diretta da Francesco Perfetti (pp. 428, € 30). Elemento di novità dell’opera, curata da Francesco Caccamo e Luciano Monzali, è l’avere steso gli otto saggi sulla base di documentazione militare, politica e diplomatica poco conosciuta, recata alla luce da scavi condotti negli archivi storici del Ministero degli Esteri e dell’esercito e in archivi croati e serbi. Fra gli studi segnaliamo “Casa Savoia e la diplomazia fascista nei Balcani”, curato da Andrea Ungari, contemporaneista presso la Luiss, e “La difficile alleanza con la Croazia ustascia 1941-1943”, dovuto a Luciano Monzali, internazionalista presso l’Università di Bari. A Ungari abbiamo chiesto d’illustrarci quanto emerso dalle sue ricerche, mentre a Luciano Monzali, uno dei curatori del volume, abbiamo domandato di sottolineare qualche spunto dell’intera opera.

 

Il Montenegro ebbe una peculiare vicenda, nella dissoluzione balcanica, solo per il fatto di essere la patria di Elena, regina d’Italia, o anche per altri elementi?

 

Sicuramente l’interesse della regina Elena per la ricostituzione di un autonomo regno del Montenegro e la restaurazione della dinastia paterna dei Petrovic Njegos ebbe un ruolo determinante. Infatti, fu sicuramente grazie all’intervento regio che si decise di ricostituire il Montenegro come Stato indipendente e questo rappresentò un successo della diplomazia di corte. In realtà, per Vittorio Emanuele III un Montenegro autonomo e pacificato doveva servire anche come polo di attrazione per la popolazione serba dell’ex Jugoslavia. In tal modo, si sarebbe costituito un centro politico relativamente stabile, guidato da una dinastia legata a casa Savoia che poteva essere utilizzato per pacificare un’area da sempre turbolenta.

 

 Si può parlare di una politica estera sabauda, distinta da quella fascista?

 

Il tema è, ovviamente, molto complesso e attiene ai rapporti più generali che si vennero a instaurare tra fascismo e corona durante i venti anni di dittatura mussoliniana. Per ciò che concerne l’area Jugoslava, è opportuno sottolineare come, se nel caso della Croazia la monarchia risultò essenzialmente a rimorchio della diplomazia fascista, per ciò che riguarda il Montenegro la diplomazia di corte ebbe una certa influenza e autonomia. Alla fine, però, a prevalere fu il ministro degli Affari esteri, Galeazzo Ciano, il quale fu tra i maggiori responsabili del fallimento della ricostituzione del regno di Montenegro.

 

Quanto influirono le vicende albanesi, i politici albanesi, le ambizioni storiche albanesi, nella sistemazione dei confini con Serbia e Montenegro?

 

È indubbio che i rappresentanti politici albanesi ebbero un ruolo decisivo nella sistemazione dei nuovi confini. L’idea della “Grande Albania”, che da sempre aveva pervaso la coscienza nazionale schipetara e i suoi settori più nazionalisti, operò in maniera preponderante nella richiesta di forti ingrandimenti territoriali. Certo è che le richieste albanesi trovarono nel Ministero degli Affari esteri italiano una notevole rispondenza, dal momento che l’Albania era uno dei pochi successi diplomatici ottenuti da Ciano. Proprio per tale motivo il genero di Mussolini cercò in tutti i modi di difendere la sua “creatura” e di assecondare i voleri della popolazione schipetara.

 

Il mito del “bono italiano” non ha forse molto senso; ma anche una rilettura dell’occupazione italiana nel Balcani che non tenga conto della violenza atavica delle popolazioni non è fondata.

 

Il mito del “bono italiano” ha, senz’altro, sviato per lungo tempo l’attenzione della storiografia dall’analisi del contegno delle truppe italiane nei Balcani. Ed è, pertanto, opportuno che l’indagine storica, scevra da pregiudizi ideologici, rifletta indubbiamente su tali argomenti. Parimenti, è opportuno sottolineare come a macchiarsi delle atrocità peggiori furono spesso le milizie etniche, in particolare gli ustascia croati, che perseguirono le minoranze, determinando una generale instabilità politica che rese ancor più pervasivo il controllo degli eserciti occupanti.

 

Sembra che spesso, soprattutto nei rapporti con i cetnici filomonarchici, i militari italiani seguano una linea distinta da quella dei politici.

 

Molti militari italiani non erano fascisti ed erano privi di simpatie ideologiche verso gli ustascia croati. Per loro era più facile provare simpatia e sintonia politica con i cetnici serbi, spesso guidati da ex militari dell’esercito iugoslavo. Vi era, poi, una tradizione storica di vicinanza fra i Savoia e i Karageorgević e fra i loro due eserciti, e pure questo fu un fattore che ebbe una sua influenza nel facilitare il sorgere di una collaborazione italocetnica.

 

Quali motivi di attualità Lei trova nella lettura delle vicende balcaniche dopo la debellatio jugoslava?

 

L’analisi delle vicende della seconda guerra mondiale mostra la profondità delle rivalità e dei contrasti esistenti fra le nazioni balcaniche e l’artificialità del progetto di costruzione di uno Stato iugoslavo unitario. Da questo punto di vista, il comunismo jugoslavo si è limitato ad imporre con la forza la ricostituzione di uno Stato unitario. Entrato in crisi il collante ideologico comunista, sono progressivamente riemerse le rivalità nazionali e regionali. Il dramma è stato aggravato dall’incapacità delle classi dirigenti jugoslave di trovare forme di compromesso nazionale e politico che evitassero il riesplodere della mattanza. Da questo punto di vista, le tragedie della seconda guerra mondiale non sono servite d’ammaestramento.

 

I conflitti religiosi contribuirono a rendere ancor più difficili, o perfino cruente, le relazioni fra popoli?

 

Settori importanti dei vertici dei gruppi religiosi, talvolta, ebbero gravi responsabilità nella radicalizzazione delle lotte nazionali jugoslave, non facendo niente per frenarle, ma anzi aizzandole. Tuttavia la differenza religiosa, più che la causa principale, fu più spesso uno strumento che i movimenti nazionalisti croati, serbi ecc. usarono per raccogliere consensi e mobilitare la popolazione politicamente e militarmente.

 

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