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”Senza la Ciceria l’Istria non sarebbe l’Istria” (Voce del Popolo 26 lug)

La Ciceria è una regione che, gigantesco e in parte nudo gradone, si erge nella parte settentrionale dell’Istria, regno asperrimo del Carso, abbacinante di pietra calcarea. Da qui l’appellativo di Istria Bianca a questo particolare settore del suo triangolo, per differenziarlo dal flysch dell’Istria Grigia e dall’Istria Rossa, determinata appunto dalle sue terre rosse. Esaminando gli autori degli studi fatti sui suoi abitanti si può tracciarne un breve profilo storico. A partire dal XII secolo iniziò nell’Istria l’espansione di due grandi potenze: quella veneta e quella asburgica. In questo periodo, le condizioni economiche della regione andarono peggiorando, non soltanto a causa delle continue guerre tra le due parti, ma soprattutto a causa delle epidemie di peste e di malaria al punto da spopolare quasi interamente il territorio, tanto che nel 1375 un comunicato ufficiale della Serenissima affermava “l’Istria ormai è da considerarsi un deserto”.

La fuga dei
Morlacchi dal Velebit

Ecco allora che si pose il problema del ripopolamento e quindi fu favorita la forte migrazione di popolazioni che fuggivano davanti alle barbare molestie dei Turchi. I Morlacchi, in primo luogo, pastori seminomadi, che scappavano dal Velebit e che i Frankopani installarono nell’isola di Veglia ma che a causa dei continui scontri con gli autoctoni, provocati dal loro bestiame che danneggiava le colture, dovettero emigrare appunto in Ciceria come altri gruppi che arrivarono dal Montenegro, dalla Bosnia, dall’Erzegovina ma anche dalla Grecia, dall’Albania, dalla Romania. Vennero chiamati Cici (čići). Nel corso dei secoli, tutti questi gruppi etnici pian piano si sono completamente slavizzati, ad eccezione dei Romeni che hanno conservato la loro lingua anche se parecchio decaduta, ovvero quel che resta di quella antica che a parere degli esperti “non è certo il romeno di Bucarest che si è imbastardito col tempo, come i cognomi del resto, durante la lunga migrazione dalle terre d’origine dell’antica Dacia”.

I due rami
dei cici romeni

Risulta comunque che l’insediamento di questa popolazione nella parte settentrionale dell’Istria è unico, con origine tra il XIV ed il XV secolo. Inizialmente questi Romeni si stanziarono con le loro greggi sui monti Sega e Zupano. Una parte in seguito discese verso nord formando Jeiani (la Žejane di oggi), i rimanenti si spostarono più a sud, nella zona paludosa dell’allora lago di Cepich, nell’attuale Valdarsa, a Sušnjevica e Nova Vas. Non risultano chiari i motivi che indussero i Cici romeni a dividersi in due grossi rami. Ci restano solo alcune leggende che danno diverse versioni di quanto in effetti accadde.

Il convento ai piedi
del monte Sega

Secondo la prima, sette famiglie avrebbero, anche se a malincuore, accettato l’invito delle suore benedettine che abitavano in un convento ai piedi del già nominato monte Sega (il nome di Mune infatti deriverebbe da “nune”, cioè suore in romeno), assegnando loro dei terreni e facendoli lavorare quali servi della gleba mentre le altre parecchie famiglie avrebbero preferito essere liberi e prendere la strada per la Valdarsa. Una seconda versione dice che, essendo cessato il pericolo turco, alcune famiglie staccatesi dalle altre, se ne andarono dal primo insediamento alla ricerca di terreni più fertili, probabilmente nella bassa Istria o sulle isole. Poi c’è una terza versione: secondo questa i Romeni furono costretti a scendere a valle per sottostare a un maggior e capillare controllo da parte delle autorità comunali in quanto autori, per necessità o forse anche per vezzo, all’abigeato, cioè alle razzie e ai furti di bestiame negli abitati pedemontani dell’Istria.

Il grande rispetto
per i vecchi

Un tempo i villaggi romeni avevano una struttura patriarcale-religiosa tipica, che oggi praticamente non esiste più. Ma si può constatare che all’interno delle famiglie esiste sempre un grande rispetto per i vecchi che vivono in casa assieme ai figli. Siccome il gruppo etnico romeno non presenta alcuna tradizione scritta ma solamente leggende remote, storie e canzoni trasmesse da padre in figlio, si puiò dedurre che non esistessero in passato delle autorità uniche per ogni villaggio, ma un consiglio degli anziani o di saggi per pratiche di vario genere: religiose, morali, di lavoro. Il riunirsi all’osteria, parlare e cantare le ossessive nenie a cinque note, oggi in lingua croata, ma su antichi racconti e tradizioni romeni, era una pratica costante che indicava appunto il rispetto pert gli anziani.

La produzione
di carbone di legna

Volendo oggi visitare i piccoli paesi della Ciceria, con tutta probabilità di Cici non se ne incontreranno molti in quanto se ne sono andati in buona parte dallo sterile altopiano. Ci sono solo un paio di villaggi da cui non si sono lasciati sradicare: Brest, Raspo, Žejane, Mune, Lanišče, Račja Vas… Ma, da dove deriva quel nome di Cici? Si dice a causa della loro particolare pronuncia del romanzo “cinque” che suonava “cinc” e che era strana alle orecchie degli abitanti dei dintorni. Comunque i Cici che erano molto poveri, già mezzo secolo fa scendevano a valle, nelle città, per vendere il carbone di legna che essi stessi producevano nelle plaghe boscose dell’Istria. Un istriano autentico, Vjeko Spinčić, nel 1882 così descriveva la produzione del carbone: “Nei boschi funzionano le carbonaie. I Cici segano la legna, la tagliano, ne fanno una catasta, la ricoprono di terra e sotto appiccano il fuoco. Il carbone è la principale merce del loro commercio e lo vendono a sacchi. Gli uomini ne caricano i muli e gli asini, le donne si sobbarcano uno o due sacchi, e quindi prendono la via di Fiume, di Capodistria o di Trieste, meglio quella che promette un migliore e più rapido smercio”.

Il commercio di aceto

Un’altra attività caratteristica era la produzione di aceto che veniva ricavato dal vino che i pastori si procuravano nella bassa Istria durante i pascoli invernali del bestiame, scambiandolo con formaggio, agnelli e lana. Poi questi commerci ebbero una contrazione, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale quando l’aceto si cominciò a produrre e a imbottigliare su scala industriale e anche la produzione del carbon dolce diminuì notevolmente sia per le nuove tecnologie impiegate per il riscaldamento che per la semidistruzione dei boschi dovuta proprio a questa secolare attività nonché per ricavarne dei pascoli.

Il «tetto» chiamato
Alpe Grande

Il tetto della Ciceria è il Planik (Alpe Grande – 1273 metri). Da lassù la vista è magnifica da ogni parte. Qui si comprende benissimo donde il nome in italiano, un po’ insolito forse, e il perché dei tanti ispirati racconti sulla rivista alpinistica “Liburnia”, il cui primo numero uscì nel lontano 1902. L’Alpe Grande divenne particolarmente popolare come meta di escursioni dopo che nel 1913 lo descrisse nella sua “Guida di Fiume e dei suoi monti” Guido Depoli, redattore della “Liburnia” e per lunghi anni segretario e poi presidente del Club Alpino Fiumano. Tuttavia gli estimatori di questo monte della Ciceria, di qua e di là dai confini, si recano ancor oggi quasi in pellegrinaggio al loro simbolo tradizionale.

Un censimento difficile

Per parlare un po’ di numeri diremo che verso la metà del XIX secolo i “Cici” censiti furono circa tre mila. Nel 1900 erano già ridotti a 1311. Oggi? Difficile fare una conta, anche approssimativa, che tuttavia non dovrebbe superare la cifra di alcune centinaia, per lo più stanziati nella Valdarsa superiore, quindi già fuori della Ciciaria vera e propria. E c’è ancora da dire che i Romeni tuttora esistenti in Istria sono localizzati in otto paesi esclusivamente romeni e cioè: Žejane, Brdo, Jasenovik, Nova Vas; prevalentemente romeni: Sušnjevica, Kotrčani; con minoranze romene: Letai, Zankovici, e in numero molto ma molto minore, a Mune. Nella lista non appaiono più né Lanišče né Raspor.
Anche dalla Ciceria tuttavia, come dalle altre regioni istriane, da sempre la gente se n’è andata per il mondo alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. In America se ne andavano soprattutto i giovani, in primo luogo dalle famiglie numerose. Ma la vita in Ciceria non si fermava, i villaggi non si svuotavano, i focolari non si spegnevano, si continuava a coltivare testardamente i campi, nei pascoli le greggi belavano sempre, non cessavano i colpi d’ascia né spariva il fumo delle carbonaie nei boschi, oggi con i vari ristoranti a griglia, ridiventate di moda. Nessuna distruzione bellica, né violenza fascista, non gli incendi dei villaggi carsici e nemmeno la fucilazione di gente inerme poterono scacciare la poca gente decisa comunque a continuare a vivere in quella terra in cui avevano messo radici.

Focolari spenti
e tetti crollati…

Dopo gli anni di tenebre e di disperazione della Seconda guerra, quand’era risorta la speranza di tempi migliori, la gente anche di questi posti fu travolta dalla fiumana che andava distruggendo tutto quello che era stato creato per secoli, e cioè cominciò ad abbandonare la Ciceria. Come da altri territori anche da qui se ne andavano nelle fabbriche mentre i campi si trasformavano in boscaglia, ci si trasferiva negli enormi casamenti delle città, mentre le case nei villaggi andavano in rovina.
Ha scritto Miroslav Sinčić: “La Ciceria ha perso così la sua gente. Ne è rimasta poca, la maggior parte dei focolari si è spenta, molti tetti sono crollati. Ma è rimasta la bellezza del paesaggio, sono rimasti i campi carsici e le foreste, è rimasta la montagna, è rimasto il territorio, così intatto e seducente, unico per quella sua singolare posizione che sfiora la volta celeste ed è a due passi dalla mitezza marina. Qui si concentrano le verticali istriane. Tutte. Senza la Ciceria l’Istria non sarebbe sé stessa. In nessun senso. È una costante che potrà prevalere solo quando alla ragione sarà offerta un’altra occasione. Allora anche la Ciceria tornerà a nascere e uomini e aquile vi faranno ritorno”.

Mario Schiavato

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