di ROBERTO WEBER
È un piccolo grande libro che apre con l'immagine di Rudolf Cvetko "la spada di Senozece" del 1912 e si chiude con Nino Benvenuti nel 1960: in mezzo c'è la storia di tutti gli atleti Olimpici del Friuli Venezia Giulia e di alcuni altri grandi che l'olimpiade l'hanno sfiorata. Ma in mezzo c'è molto di più: c'è la storia materiale e non confutabile dei nostri territori, c'è come amano dire gli studiosi la "rappresentazione di un'identità". È una storia inconfutabile. Inconfutabile perché prima ancora che di racconto o di sintassi (cioè della trama sportiva e di quanto la tiene assieme) è una vicenda che vive di nomi: Uberto Luigi De Morpurgo, Simeone Cattalinich, Pietro Ivanov, Guerrino Scher, Luigi de Manincor, Silvano Abbà, Giorgio Oberweger, Elda Cividino, Giulio Missoni, Gabre Gabric, Cesare Rubini, Giorgio Steffè, Irene Camber, Romana Calligaris, Agostino Straulino, Strukel Silvia, Pino Kressevich, Abdon Pamich, Savino Rebek, Gianfranco Pieri etc etc. E i nomi raccontano di una identità plurima che si nutre di culture, lingue, etnie e provenienze diverse, assimilate, integrate – più o meno forzatamente – sotto il comune ombrello dello stato nazionale italiano di cui rappresentano i colori.
Poi ci sono i territori: fra tutti gli olimpionici gli istriani sono 39, i dalmati 26, i triestini 62, complessivamente 14 i nati in Friuli o nell'Isontino. E naturalmente anche i territori parlano: nel 1960 sui 32 partecipanti della regione alle olimpiadi di Roma, quelli di origine istriano-dalmata si sono ridotti appena a tre, a testimonianza delle amputazioni subite di cui fascismi e nazionalismi portano la responsabilità. Ma ancora da questi stessi numeri scopriamo che il vasto contado alle nostre spalle il Friuli, fino alle soglie degli anni Sessanta, resta subalterno. La creazione di ricchezza superflua e la distribuzione del prezioso bene del tempo necessario alla pratica sportiva sono ancora appannaggio della grande città emporiale, della sua stratificazione sociale, della cultura sportiva nata a cavallo del secolo, delle sue elites, del suo ceto medio, del proletariato e delle sue realtà associative. Trieste e le sue appendici istriane e dalmate sono fino a quel momento largamente egemoni e anche nella spalmatura dei singoli sport fra i ceti – salvo per alcune discipline d'elite – scopriamo una logica assai sapiente e per molti versi interclassista. È solo dopo aver scorso rapidamente questi dati che possiamo andare alle immagini che riservano conferme e sorprese.
La prima è che lo stereotipo delle bellissime donne triestine, come tutti gli autentici stereotipi, ha un nucleo di verità profondo: sono bellissime le nuotatrici, le signore della scherma, quelle dell'atletica, le ginnaste, addirittura le lanciatrici del disco. Ma ciò che più conta sembrano anticipare i tempi che verranno: stranamente non vien voglia di metter loro un uomo accanto, sembrano vivere di luce propria, di una loro profonda autonomia. Trieste anche allora sotto la spinta inerziale del cosmopolitismo di inizio secolo andava veloce, molto più veloce del resto del paese. Infine la tipologia degli sportivi di allora: molti di essi erano atleti poliedrici, che avevano successo in più discipline o più specialità all'interno della stessa disciplina, quasi che alla base del loro professionismo ci fosse una leggerezza, una predisposizione al 'gioco' che li rendeva più duttili, più curiosi e in ultima analisi più forti.
Fra tutti colpisce la figura – ma non è l'unica – di Giorgio Oberweger, capace di lanciare il disco e di correre i 400 ostacoli: la "forza intelligente", la velocità e la grande sapienza tecnica a surrogare un deficit di peso e potenza che oggi apparirebbero incolmabili. Non tutto è andato perduto, molto si è trasformato, ma se vogliamo pensare alla città e alla regione che verranno forse dovremmo ancora riandare a quell'impasto di razze, nomi e culture e a ciò che abbiamo chiamato "forza intelligente": fuori da ciò Trieste e il Friuli Venezia Giulia diventano piccoli piccoli e pure le donne pian piano diventano meno belle.