Dalla rubrica "Lettere a Sergio Romano"
È corretto parlare di clima da «guerra fredda» fra Italia e Jugoslavia a proposito dell’attrito che si venne a creare, tra l’estate del 1953 e l’autunno del 1954, sulla controversia per l’assetto politico del cosiddetto «territorio libero di Trieste»? E davvero si sfiorò anche lo scontro militare, scongiurato dall’abilità diplomatica del primo ministro italiano Giuseppe Pella, oltre che dei rappresentanti di Usa e Gran Bretagna al negoziato di Londra che mise la parola fine a quella controversia?
Come si svolsero i fatti e che peso ebbe il Governo Pella in tutta la vicenda?
Michele Toriaco
Caro Toriaco,
Giuseppe Pella fu l’ultimo protagonista di una politica estera irredentista e risorgimentale.
Era cattolico e si era iscritto alla Democrazia cristiana nell’ultima fase del conflitto, ma era soprattutto un economista piemontese di taglio liberale, molto vicino alla ortodossia finanziaria di Luigi Einaudi e poco sensibile alla dottrina sociale di molti dei suoi compagni di partito, da Dossetti a Fanfani. Fu questa la ragione per cui Einaudi, allora presidente della Repubblica, lo incaricò della formazione del governo dopo lo scacco che Alcide De Gasperi subì nelle elezioni del 1953.
Pella creò un ministero monocolore in cui erano presenti alcuni fra i maggiori esponenti della Dc (Fanfani, Malvestiti, Segni, Tambroni, Taviani), ma tenne per sé due ministeri importanti (le Finanze e gli Esteri) e chiamò al Commercio con l’Estero un professore di economia politica, Costantino Bresciani Turroni, di cui avevo ascoltato le lezioni all’Università di Milano pochi anni prima.
Molti pensarono che il governo presieduto da un economista, reduce da esperienze ministeriali importanti alle Finanze, al Tesoro e al Bilancio, sarebbe stato dominato da preoccupazioni economiche.
Ma il fatto che Pella avesse deciso di essere, sia pure temporaneamente, ministro degli Esteri, avrebbe dovuto suscitare qualche sospetto.
Per l’Italia il maggiore problema internazionale all’ordine del giorno, in quel momento, era la creazione di un nuovo organismo, la Ced (Comunità Europea di Difesa), che avrebbe permesso di collocare l’esercito tedesco all’interno di una cornice comunitaria e di creare una solida base per l’integrazione politica del continente.
Pella ritenne che quella fosse l’occasione ideale per affrontare il problema di Trieste, dove il Trattato di pace aveva creato un effimero Territorio Libero costituito da una parte prevalentemente italiana (la zona A) e da una parte divenuta, dopo l’esodo degli istriani, prevalentemente slovena e croata. In un discorso pronunciato al Campidoglio, il 13 settembre 1953, propose un plebiscito nelle due zone del Territorio e lasciò intendere che l’Italia avrebbe ratificato il trattato della Ced soltanto dopo la soluzione del problema di Trieste. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fecero sapere che erano pronti a ritirarsi dalla zona A per cederne l’amministrazione al governo italiano. È probabile che Pella puntasse sulla restituzione dell’intero territorio, ma la reazione più incollerita e nervosa fu quella del maresciallo Tito. Il 12 ottobre dichiarò che l’ingresso delle truppe italiane a Trieste sarebbe stato considerato una aggressione. Vi furono manifestazioni popolari di segno opposto a Belgrado e a Trieste, e quelle della città giuliana lasciarono sul terreno sei morti e sessanta feriti, colpiti dalla polizia del Territorio libero. Quando Pella annunciò che avrebbe partecipato ai funerali, gli Alleati glielo proibirono. Fu quello il momento in cui ordinò la mobilitazione di due divisioni e le mandò alla frontiera nei pressi di Gorizia.
La crisi cominciò a sgonfiarsi quando Tito, con un primo passo indietro, propose la restituzione di Trieste all’Italia, ma nell’ambito di una soluzione che avrebbe lasciato alla Jugoslavia una parte della zona A. Qualche giorno dopo, Pella incontrò il rappresentante jugoslavo a Roma e raggiunse un accordo per il ritiro simultaneo delle truppe dei due Paesi.
Era l’inizio del disgelo. Ma non fu Pella che ne colse i benefici.
Abbandonato dal suo partito, a cui non piaceva un governo troppo indipendente, dovette dimettersi. Trieste tornò all’Italia nell’ottobre del 1954 quando il presidente del Consiglio era, da sei mesi, Mario Scelba.