Riportiamo l'intervento di Francesca Gambaro, giovane Consigliere nazionale ANVGD, a commento del Giorno del Ricordo 2007.
“Giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu […] un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”.
Le parole precise e coraggiose pronunciate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Quirinale in occasione del “Giorno del Ricordo” del 2007 suonano come un solenne impegno di ristabilimento della verità storica. Il “Giorno del Ricordo” è stato istituito per legge nazionale nel 2004 (legge 30 marzo 2004, n. 92) e approvato alla quasi unanimità dai parlamentari italiani al fine di conservare e rinnovare la memoria degli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre d’origine al termine della seconda guerra mondiale e delle più complesse vicende legate al confine orientale del nostro Paese. Il discorso di Napolitano sancisce la definitiva istituzionalizzazione di una parte di storia nazionale rimasta occultata per oltre 60 anni ma che ancora non è entrata a far parte di diritto nelle pagine dei libri di testo studiati dai ragazzi nelle scuole e nelle università. Esso offre quel riconoscimento troppo a lungo mancato alla tragedia umana di migliaia di famiglie i cui cari furono imprigionati, uccisi e gettati barbaramente nelle foibe – e lì per sempre rimasti insepolti – e dell’esodo di quei 350.000 italiani istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare tutto (la casa, la terra tanto amata, gli affetti più cari, il lavoro) a causa della pulizia etnica [cito le parole di Napolitano] e culturale perpetrata a loro danno dai partigiani comunisti del Maresciallo Tito perché rei di una sola colpa: quella di essere italiani e di amare a tal punto l’Italia da non voler rinunciare alla propria identità nazionale. Condizione invece imposta dal regime Jugoslavo senza possibilità di alternative: o restare rinunciando alla propria italianità (cultura, lingua, tradizioni, valori, religione) oppure partire ed essere liberi di esprimerla. Occorre superare una lettura ideologica della memoria dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia e delle foibe che, per troppo tempo, è stata considerata come memoria di una parte politica e non patrimonio della nazione intera. Per farlo è indispensabile svincolare quella memoria da tutta una serie di stereotipi e di pregiudizi a cui ricorrono ancora molti italiani quando cercano di dare una lettura “storica” delle vicende legate agli esuli giuliano-dalmati e che, in sintesi, si basano su una arbitraria e ingiustificata attribuzione di colpa a tutti gli esuli e agli infoibati perché considerati fascisti o collusi con il fascismo e, pertanto, storicamente sconfitti e meritevoli di una punizione. Questa visione non corrisponde alla "verità" perché ignora il fatto che la violenza sanguinaria scatenatasi in Venezia Giulia e in Dalmazia per volere di Tito rispondeva ad un disegno annessionistico ben preciso e strategicamente pianificato che assunse i contorni di una pulizia etnica contro l’italianità di quelle terre e delle loro popolazioni autoctone. Liberare questa memoria da letture ideologiche è la condizione indispensabile per la creazione di una memoria pacificata, condivisa, corrispondente alla realtà di fatti, accettata da parte di tutta la nazione. Ancora oggi ben pochi sanno che l’Italia, nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale, anche contro le condizioni del trattato di pace di Parigi del 1947 che pose fine alle ostilità (di cui il 10 febbraio è ricorso il sessantesimo anniversario), usò i beni (le case, le fabbriche, le terre) degli italiani giuliano dalmati per pagare i danni di guerra alla vittoriosa ex Jugoslavia, per conto di tutta la comunità nazionale. L’Italia cedette alla vittoriosa ex Jugoslavia tutti i territori della Venezia Giulia e della Dalmazia che fino a quel momento rientravano nei confini nazionali e condizionò in maniera irreversibile la vita di centinaia di migliaia di italiani costretti a “fare fagotto” e a sparpagliarsi in ogni angolo del mondo. Ancora meno italiani hanno mai sentito parlare del più recente Trattato di Osimo del 1975, tra Repubblica Italiana e Repubblica Socialista federativa di Jugoslavia, firmato in condizioni di massima segretezza tra i ministri degli esteri di allora. Tale atto unilaterale – da parte dell’Italia – sanzionò la definitiva cessione di ogni legittima pretesa di sovranità della nostra nazione sulla zona B dell’ex territorio libero di Trieste, assegnandola alla Jugoslavia, quando la questione della attribuzione definitiva di quel territorio di confine – e della popolazione italiana che ci abitava – era ancora tra gli ordini del giorno sottoposti allo studio dell’ONU per trovare una soluzione diversa. L’ancor diffusa e generalizzata ignoranza degli italiani su questa pagina di storia è incrementata ulteriormente dagli interventi di relatori di dubbia preparazione storica che nelle settimane vicine al 10 febbraio attuano una pericolosa operazione di contro-memoria dell’esodo e delle foibe, presentando ricostruzioni storiche tendenziose – e persino false in alcuni casi – nel corso di conferenze e incontri appositamente organizzati. Le amministrazioni pubbliche di tutta Italia, spesso ignare, dovrebbero essere vigili prosecutrici della linea d’azione inaugurata con saggezza dal capo dello Stato e mostrare collaborazione nei confronti delle Associazioni degli esuli che da 60 anni ne rappresentano e tutelano i diritti negati, tra cui l’insopprimibile diritto di veder riconosciuta la propria storia. In questa delicata fase di passaggio in cui la memoria dell’esodo e delle foibe non ha ancora il carattere di memoria scritta (non essendo presente nei libri di storia, salvo qualche breve cenno in rarissime eccezioni), è quanto mai indispensabile dare voce agli esuli che ancora vivono in tante parti d’Italia e che dovrebbero essere ospitati dalle Amministrazioni locali e dalle scuole di ogni ordine e grado nel corso di manifestazioni pubbliche e iniziative culturali organizzate in occasione del “Giorno del Ricordo” in qualità di testimoni oculari di quei fatti e, dunque, di una verità che attraverso il loro racconto di vita sarebbero in grado di trasmettere, soprattutto alla generazione dei più giovani.
Francesca Gambaro
Consigliere nazionale e membro dell'Esecutivo provinciale di Milano dell'ANVGD