di ARIANNA BORIA
MILANO Le giapponesi rovesciate a Milano dalla settimana della moda ticchettano su tacchi inverosimili, aghi sinistri, punteruoli minimo dodici.
Traballano alla moviola in via Montenapoleone, guardandosi intorno circospette, concentrate nello sforzo dell'equilibrio. A poche centinaia di metri di distanza altre indossatrici in un filmato dell'Istituto Luce percorrono sorridenti una passerella di trent'anni fa: senza tacchi, senza «scavallare», bellissime e semplicemente anonime. E, dallo stesso video, una Benedetta Barzini dal volto totemico racconta che mai, quando sfilava per lei, la Signora pronunciava quei «terrific», quei «fantastic» che sempre si sprecano sulla passerella, ma che la sua approvazione si limitava a un asciutto «vai, che vai bene così».
La mostra dedicata a Mila Schön, aperta a Palazzo Reale a pochi giorni di distanza dalla scomparsa della stilista dalmata, è l’isola che non c’è più, uno spazio quasi bizzarro nella settimana delle forzate della sfilata in total black, del traffico impazzito, del rumore, delle pierre. Due sale e una quarantina di abiti per raccontare cinquant’anni di carriera della stilista di Traù, che Milano ricorda – fino al 12 ottobre – come «sua». È un omaggio, appunto, la mostra di Palazzo Reale, senza pretese di cronologia, di percorso, di racconto. La celebrazione dello stile Schön è affidata a sensazioni e percezioni, a macchie di colore, all’abbinamento epidermico tra l’abito e le gigantesche immagini in bianco e nero dell’amico fotografo Ugo Mulas, con cui Mila frequentava le gallerie d’arte, trasferendo, da vera pioniera, la sperimentazione artistica nei suoi tagli, nelle sue proporzioni.
Chi fosse Maria Carmen Nutrizio, l’elegante signora del demi-monde milanese, abituatasi al bello nelle sartorie parigine dove la accompagnava il marito Aurelio, commerciante di preziosi, prima di essere travolto da un disastro economico, ce lo dice piuttosto l’interessante docu-film firmato da Antonello Sarno e proiettato in coda al percorso espositivo. Un collage di spezzoni da vecchi cinegiornali dell’Istituto Luce con le collezioni di Mila Schön, le brevi dichiarazioni della sua indossatrice-musa, Benedetta Barzini, e soprattutto una recente e intensa testimonianza della stessa stilista, novantenne ancora più affascinante della signora di mezza età, sempre in camicia bianca e gonna, che compariva a prendere gli applausi sulle note di Jean Michel Jarre, con cui chiudeva tutte le sue sfilate.
Ecco Mila nel suo atelier accanto a una longilinea e giovane Mina, che prova, in versione lungo, un abito del tutto simile a un altro esposto nella mostra, una breve tunichetta lavorata in oro a motivi geometrici, fine anni Sessanta. Ecco Mila a Capri per lanciare costumi da bagno ricamati che, con una gonna o uno scialle, si trasformano in abiti da sera, sempre discreti, «perchè – ci racconta – l’uomo deve cercare qualcosa, non deve trovarla lì pronta». Eccola ancora tra i vertici di Alitalia, quando, nei primi anni ’70, creò la divisa per le assistenti di volo: tailleur e soprabiti di taglio sartoriale, in quel «verde Italia» pastoso e brillante che amava abbinare al blu. Eccola a spiegare i suoi colori, il viola, che sdoganò anche per la sera, il ruggine, il marron, una monocromia che rende le sue creazioni quasi futuribili, come ricordava, nel 1998, la bellissima mostra «Cubism and Fashion» del Metropolitan di New York, scegliendo, tra i grandi del made in Italy, anche un modello Schön.
Dopo il video e le parole di Mila è più facile tornare indietro e godersi il percorso tra i vestiti, che si conclude con due stupende prove-omaggio della giovane Bianca Gervasio, la direttrice creativa scelta dall’attuale proprietà della griffe, Brand Extension, a darle novità e continuità, oltre che a rilanciarla nel panorama internazionale dopo anni un po’ incerti.
Aprono le geometrie dell’abito e del cappotto in bianco e nero, un vero e proprio manifesto di stile: niente orpelli o aggiunte superflue, «perchè – aveva detto poco prima Mila dal video – io noto solo il brutto delle cose, eliminandolo rimane il bello».
Nella sala centrale pezzi dalle collezioni che testimoniano l’appassionato rapporto con l’arte. Un vestito e un soprabito si ispirano ai tagli di Lucio Fontana: lunghe fenditure nel bianco che rivelano la «profondità» del tessuto, doppiandolo in nero. Più in là i cerchi concentrici, i grandi fiori in rosa e torrone nati dall’osservazione delle opere dell’astrattista americano Kenneth Noland, poi gli infinitesimali ricami in paillettes, perle e pietre che si richiamano a Klimt, i grafismi, i coloratissimi incastri di cerchi e quadrati che celebrano l’op art dell’ungherese Victor Vasarely. Citazioni colte e misurate, per icone di stile come Marella Agnelli e Jackie Kennedy, le signore Rockfeller e Farah Diba. Nell’altra sala gli abiti da sera degli anni ’90, architetture di stoffa di una purezza mozzafiato: i giochi di bianchi e neri nella gonna a strascico che davanti è una «mini», maniche e cinture gioiello, cappe color ciclamino, profonde scollature trattenute sulla schiena da fiocchi.
Nei giorni scorsi la collezione di Bianca Gervasio per Mila Schön, l’ultima che ha avuto il sigillo della stilista scomparsa il 5 settembre scorso, ha attraversato la mostra prima di sfilare nel salone delle Cariatidi di Palazzo Reale, in un’ideale continuità tra passato e presente. La stessa che si legge nelle ultime due creazioni della retrospettiva, già firmate da Bianca: un soprabito «triangolare» bianco ostrica e un abito cipria il cui collo si alza in volute a nascondere il viso. Pochi mesi prima Mila le aveva detto: «Sei brava, c’è sintonia tra le nostre idee di eleganza ma, come me agli inizi, hai ancora tanto da imparare».