ESULI Intervista a Isidoro Marsan, profugo borgherizzano italiano e campione di pallacanestro in casa e a Cantù
La vittoria più bella è tornare a Zara
di Silvio Forza
Isidoro Marsan è alto e magro. Proprio come veniva indicato cinquant’anni fa, quando giocò a pallacanestro, ad alti livelli, in quella Zara postbellica che era stata la culla del basket in Jugoslavia e poi a Cantù, luogo sacro per i cestisti italiani e che tale è diventato proprio con l’avvento di Marsan. Lo conferma anche il sito ufficiale della “Pallacanestro Cantù” in cui si legge: “..con la riconquista della serie A nel ‘56, (con Marsan in panchina n.d.r.) si apre un capitolo nuovo per la storia del basket canturino: in società entra la famiglia Casella …allenatore resta lo zaratino Marsan”
“Alto e magro”, nel caso di Marsan, erano aggettivi che diventavano metafora di uno che sotto canestro ci sapeva fare; erano complimenti, complimenti che valgono anche oggi per un signore di 83 anni, elegante e distinto, che non ha voluto mancare al recente Raduno dei Dalmati a Bellaria (Rimini). Ce lo ha indicato Walter Matulich, uno che pur vivendo tra le nebbie lombarde porta la Dalmazia ben stretta nel cuore. “Nel secondo dopoguerra”, ci ha raccontato Matulich, “Marsan si distinse come operatore sportivo – “ante litteram”. Atleta poliedrico, diede lustro, soprattutto, alla pallacanestro zaratina, nei ruoli sia di giocatore sia di giocatore-allenatore. Vi gettò le basi del basket moderno, allevò con cura amorevole, quasi paterna, una generazione ispirata di ragazzotti, destinati a far conoscere all’universo mondo il nome della città dalmata. Uno su tutti: Pino Gjergja, suo allievo prediletto. Fa tenerezza, oggi, vederli passeggiare insieme, in Calle Larga, a Zara, allievo e maestro, tessitori e testimoni di amicizia e solidarietà: incanto di passioni che dividono le angosce a metà”.
La convinzione che Isidoro Marsan sia certamente un personaggio da presentare ai nostri lettori, si è rafforzata quando Matulich ci ha raccontato altri dettagli: “Nel 1953, in tournée” a Vienna con la squadra, Marsan decise di non rientrare a Zara. Scelta alla quale lo indussero le “attenzioni” e le piacevolezze che il regime si piccava di ammannirgli. Agguantò allora l’Italia e vi dimorò per cinque anni. Eccelse, altra volta, nella duplice veste di giocatore ed allenatore. Visse ramingo e solitario, fra Pavia, Cantù e Bologna per sbarcare, infi – ne, in Australia, ove tuttora risiede. Uomo modesto, schivo, integerrimo, mai dimenticò o nascose quel che è stato ed è: – Borgherizzano ed Italiano”.
Isidoro Marsan lo incontro nella hall dell’albergo; l’idea di farsi intervistare non gli dispiace e nonostante l’ora tarda – le 10 di sera – offre la sua disponibilità immediata. Un regalo prezioso, il suo, visto che di cose da raccontare ne ha parecchie. Infatti, rimango ad ascoltarlo fi no ad oltre l’una di notte: tempra, fi sico, salute e memoria lo sorreggono benissimo, è aperto ma vigile allo stesso tempo, cosciente che, anche sessant’anni dopo le tragedie istriane, quarnerine e zaratine in particolare, alcune cose è ancora meglio non dirle.
Isidoro Marsan nasce a Borgo Erizzo (in croato Arbanasi), frazione di Zara, nel 1925. Epigono di stirpe albanese, migrata dai dintorni di Scutari e stabilitasi nel territorio zaratino nel 1726, è fi glio di Matteo e Maria Perovich. Ed è interessante notare come, nonostante un padre di origine albanese e una madre di ascendenze montenegrine, Isidoro Marsan, com’è capitato a moltissimi dalmati, si sia sentito Italiano per tutta la vita. In casa, come ha detto egli stesso, con i familiari parlava un dialetto di derivazione albanese; lo slavo lo parlavano una serva e un bracciante che veniva dal contado. “L’italiano”, conclude, “l’ho imparato fuori casa”. Ma se nella zona di Zara c’è stata un’italianizzazione derivante dall’urbanizzazione, è successo anche il contrario: “mia nonna era una Canareggio (nome del noto sestriere di Venezia, n.d.r.)”, ci ha spiegato Marsan, “era di chiara origine veneziana, ma quando la famiglia si è trasferita a Bibinje sono diventati Kero poiché fuori Zara ci si slavizzava”. E qui non si può non segnalare che oggi Zara è una città animata solo dal forte orgoglio nazionale croato, una città in cui, in perfetto confl itto antistorico, non vige alcuna forma di bilinguismo, in cui l’autoctonia degli italiani non è statutariamente riconosciuta, in cui non operano più asili e scuole italiane, chiuse per decreto nel 1953; operazione con la quale si completava il disegno del poeta partigiano Vladimir Nazor che agli italiani disse chiaramente: “Spazzeremo dal nostro suolo le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio”.
Ma sentiamo Marsan. E partiamo dallo sportivo.
Erano coinvolti molti giovani
Lo sport è una parte importante della sua vita. Come ha iniziato?
Ho iniziato con il nuoto, partecipando alle gare cittadine. Andavo benissimo nei 50 metri perché ero alto, ma per le distanze più lunghe ero troppo magro. Ho fatto anche un po’ di lancio del giavellotto, lanciando oltre i 48 metri che all’epoca, da dilettante, non era male. Ho iniziato a praticare la pallacanestro nel 1937, a Zara, tra gli juniores. All’epoca la squadra seniores militava nella Serie A italiana e aveva tra le sue file anche Lucio Benevenia che è stato nazionale italiano.
Zara era distante dal resto d’Italia. Con chi potevano confrontarsi gli juniores?
Il nostro era un campionato juniores cittadino, tra sette squadre, tutte di Zara. Erano coinvolti molti giovani e per questo è stato molto importante per l’avvio della pallacanestro a Zara.
E queste sette squadre erano?
Erano le squadre del Ginnasio, della Scuola tecnica, delle Magistrali, dell’Istituto industriale, del Convitto Tommaseo (la scuola degli italiani dalmati che non vivevano a Zara ed erano quasi tutti spalatini), quella della Colonia agricola e infi – ne la mia, quella di Borgo Erizzo.
Bombardamenti tremendi
E dopo quel campionato?
Quella è stata solo la prima esperienza perché l’anno dopo, a 14 anni, sono andato a Bolzano dove ho frequentato una scuola militare. Sono rientrato a Zara solo nel 1943.
Dunque i tempi non erano buoni per la pallacanestro. È il periodo dell’armistizio e dei successivi bombardamenti di Zara.
Erano tremendi quei bombardamenti. Mi ricordo che il primo, quello del 2 novembre, è avvenuto di notte, senza allarmi. Io mi trovavo a Borgo Erizzo che fortunatamente non era stato meta degli attacchi. Il secondo bombardamento è stato durissimo, le bombe cadevano dalla manifattura tabacchi verso il porto, le distruzioni erano tremende, sembrava dovesse venir giù tutto tanto che la gente credeva si trattasse di un terremoto. Un disastro, morti dappertutto.
Ferito gravemente alla spalla e ai polmoni
Sono stati 54 i bombardamenti di Zara tra il 2 novembre 1943 al 31 ottobre del 1944. Ben 584 tonnellate di bombe sganciate su di una città di nessuna importanza strategica, qualcosa come 54 chilogrammi di esplosivo per ogni 100 metri quadrati. Anche lei è stato colpito?
Sì, durante il terzo bombardamento, quello del 16 dicembre 1943. Io mi ero rannicchiato a terra ma proprio l’ultima bomba ha colpito una pietra che mi è venuta addosso, ferendomi gravemente alla spalla e ai polmoni. Ero tutto insanguinato, la città era sottosopra, c’erano tantissimi incendi, così mi portarono a Bibinje da mia nonna.
E rimane a Bibinje fino alla fine della guerra?
No. Il 6 agosto 1944 i partigiani jugoslavi prelevarono otto zaratini a Bibinje. Di notte, tutti quelli sopra i 18 anni. Io non sapevo neanche parlare croato.
Eravamo «volontari»
Potevate rifiutarvi di seguirli?
E come? Ci chiesero se volevamo annunciarci come volontari o come “forzati”. Ovviamente abbiamo capito che dovevamo dire di essere dei volontari. Ci portarono a Knin, tre mesi di combattimenti contro i tedeschi, contro i cetnizi serbi, contro gli ustascia croati.
Con lei c’erano altri zaratini?
C’erano anche zaratini prelevati prima di me. Mi ricordo di Boris Marussich, Antonio Perovich e Antonio Marussich. Ma c’erano anche alcuni italiani fatti prigionieri dopo l’8 settembre. Mi ricordo benissimo di Claudio Lepri, che era di madre zaratina e di padre siciliano e di tale Gigli di Recanati che era un bravo infermiere.
Fu una carneficina
Per quanto tempo è rimasto nelle file partigiane? Com’è stata quell’esperienza, considerato che quella in cui si trovava lei era zona di guerra vera?
Sono stato partigiano dall’agosto 1944 fi no al maggio 1945, all’interno della XIX divisione, XIV brigata, III battaglione con sede a Bukovica. Durante la permanenza partigiana ci sono stati parecchi scontri armati. I comandanti erano quasi tutti serbi ortodossi, tra i quali quel Simo Dubajić che è stato coinvolto alla fine del conflitto nel massacro di croati non comunisti a Bleiburg. Già il 2 novembre 1944, a Scardona, avevo letto che a Zara avevano fatto ingresso le truppe di Tito e a quel punto si sapeva che Zara sarebbe passata alla Jugoslavia. Ma io dovevo rimanere “in bosco”. Sono stato a Mostar, poi in Dalmazia, poi abbiamo risalito la Lika giungendo quasi fino a Karlovac e le azioni di guerra sono state tante. Poi siamo ridiscesi verso Segna per prendere postazione in quota Katerina da dove si doveva proseguire per Fiume. Si voleva conquistare Fiume, ma c’è stato uno scontro tremendo con i tedeschi. È stata una carnefi cina; degli ottanta che eravamo siamo sopravvissuti solamente in otto, così siamo stati destinati ad un’altra compagnia con la quale il 3 maggio 1945 siamo entrati a Fiume. Con noi c’era un gruppo di fi umani con la bandiera italiana con la stella rossa.
Per lei la guerra termina dunque a Fiume.
No. Ci hanno fatto proseguire immediatamente per Villa del Nevoso e Sappiane verso Trieste. Ci siamo fermati proprio alle porte di Trieste dove ci è stato detto che la guerra era finita. Grande festa.
Così è rientrato a Zara.
Non subito. Siamo andati a piedi fino a Buccari, poi in nave a Dubrovnik (Ragusa) con una brevissima tappa di due ore a Zara a salutare mia madre e a prendere sigarette, carote, fagioli. Sono tornato a Zara solo a Natale, nel 1945.
Non eravamo comunisti…
E vi rimane fino al 1953. Come sono stati quegli anni?
Preferisco non raccontare quello che mi viene in mente. Posso dirvi soltanto che mia madre si è fatta sei mesi di prigione perché non eravamo comunisti.
L’unica nota positiva viene dunque dalla pallacanestro.
Sì. Con una decina di zaratini ho inziato a riattivare il basket in città. I tabelloni erano di legno, i palloni più grandi di quelli attuali, si segnava molto di meno e i risultati erano diversi da quelli di oggi. Con me c’erano Zane, Berto Nadoveza, Ante Rellia, Tullio Rochlitzer, Vazzoler, Zerausek, Enzo Sovitti, Pave Rellia, Mircovich, Nade Domini e Pittoni. Nel 1946 se ne vanno in Italia Vazzoler, Zerausek e Nadoveza, nel 1948 Rochlitzer passa alla Stella Rossa di Belgrado. Istituendo gli allievi e gli juniores abbiamo salvato la pallacanestro di Zara. La pallacanestro era una soddisfazione, un importante diversivo.
I giocatori parlavano in italiano
Giocavate nel campionato jugoslavo?
Sì, nel 1946 ci siamo classificati secondi. All’epoca Fiume aveva la squadra più forte ma non li fecero giocare perché ritenuti ex italiani.
Chi giocava a Fiume?
Mi ricordo di Olivieri e Tertan.
E negli anni che seguirono, come si comportò la squadra?
Nel 1948 diventai giocatore – capitano – allenatore. Giocavo da terzino. Istruivo anche gli allievi tra i quali c’erano anche Pino Gjergja e altri 15 ragazzi, mentre Antonio Gjergja e mio fratello Benito militavano tra gli juniores. La maggioranza dei giocatori era composta da zaratini, si parlava in italiano, anche se avevo incluso alcuni “scoiani” (isolani) e morlacchi. Si giocava al campo della Gil (Gioventù Italiana del Littorio, poi Jazine) all’aperto. C’erano molti spettatori, tifavano “Zadar, Zadar”, ma i giocatori parlavano in italiano. Tra il 1946 e il 1953 abbiamo giocato sempre in serie A. All’epoca le squadre più forti erano la Crvena Zvezda e il Partizan di Belgrado, varie squadre di Zagabria (Mladost, Jedinstvo, Slavija), di Fiume (che a fine anni quaranta si chiamava Lokomotiva), ma anche lo Zrenjanin e il Vojvodina. Comunque a Zara non ci ha mai battuto nessuno.
Stavano anche per convocarla in nazionale.
Nel 1948 sono stato convocato con la nazionale jugoslava per le preparazioni ad Abbazia in vista delle Olimpiadi di Londra. Ma poi la squadra non partecipò al torneo.
A Vienna senza ritorno
Il 1953 è l’anno in cui si completa l’esodo degli italiani dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia. Se ne va anche lei, ma in circostanze diverse.
Nell’agosto del 1953 gli americani organizzarono a Vienna un torneo di 4-5 squadre al quale, accanto ad altre compagini austriache, partecipavamo anche noi di Zara. Ad un certo punto, all’improvviso, mio fratello Benito e Antonio Gjergja mi comunicarono che non avevano intenzione di tornare. Io, anche se non ero contrario all’idea, rimasi senza parole. Poi proposi di rimandare il tutto al prossimo torneo al quale eravamo già stati invitati e che si doveva svolgere di lì a poco in Svizzera. Nel frattempo avremmo potuto parlarne con nostra madre e avere tutti un minimo di garanzia fi nanziaria, anche perché mia madre, dopo la prigionia causa l’anticomunismo, dipendeva dal mio stipendio. Loro non ne vollero sapere. In un bar incontrammo un tale di Bolzano che ci consigliò di rivolgerci ad un croato che a Vienna si occupava dei casi dei profughi. Vienna all’epoca era suddivisa in zone di controllo, ma di fatto era circondata dai russi. Con un’automobile ci accompagnarono in una villa fuori città, una specie di centro di raccolta profughi americano. Intanto la squadra non era rientrata a Zara, decisero invece di cercarci e si fermarono altri tre giorni. Il nostro caso era diventato notizia. In quella villa, non so bene per quali canali, era venuto a cercarci per conto degli jugoslavi un tale Horvat che riuscì addirittura a parlare con me, ma io feci fi nta di essere spagnolo. Si teneva comunque abbastanza distante, perché gli americani gli dissero che avevo una malattia infettiva. In quella villa rimanemmo una quindicina di giorni. Però la notte ci facevano dormire sempre in luoghi diversi, finché un giorno, con un piccolo aereo decollato proprio dalle rive del Danubio, ci trasferirono a Linz. Da Linz giungemmo nella piccola località di Asten dove c’era un campo per profughi dalla Jugoslavia. Lì mi sono trovato male, avevo paura perché c’erano tanti slavi e comunque non mi fi davo. Così sono andato via, prima a Salisburgo, poi a Innsbruck, dove ho acquistato un biglietto per Bolzano.
Così raggiunse l’Italia.
Non fu così semplice. Eravamo senza documenti. Ci fecero scendere al Brennero, prima del confine, camminammo arrampicandoci per più di 25 chilometri. Superato il valico e arrivati a Vipiteno i carabinieri ci prelevarono e ci condussero a Bolzano. Ci fecero fare tre giorni di prigione, interrogatori a non finire perché c’erano ancora in circolazione tanti profughi e ricercati tedeschi. Quando ci lasciarono, un carabiniere di Bolzano, al quale probabilmente facemmo pena, ci diede una lettera raccomandandoci di non aprirla prima di essere arrivati a Trento. Dentro c’erano tremila lire…
Vita molto dura nel campo profughi
Dove andaste?
Al campo profughi a Fraschette d’Alatri in provincia di Frosinone, dove in realtà c’erano due campi, il numero 1 e il numero due. Lì la vita era molto dura.
Come vi trattavano?
Non ci trattavano…
Quando ho conosciuto un Lussignano e un tale di Curzola mi sono sentito meglio. In campo ho incontrato anche Zaratini quali Giuseppe Marussich, che stava già al villaggio giuliano dalmata di Roma. Dopo due mesi di permanenza mi salvò la pallacanestro perché da Venezia e da Pavia mi chiesero di venire a giocare.
E suo fratello e Antonio Gjergja?
Se ne andarono in Cile.
E lei tra Venezia e Pavia scelse…
Pavia, perché lì c’era Tullio Rochlitzer che aveva giocato con me a Zara e perché a Pavia, al contrario di Venezia, mi avevano offerto pure un lavoro in fabbrica. Poi purtroppo non se ne fece niente per questioni di carte, cittadinanza o profuganza, non mi ricordo più. Così decisero di vendermi al Cantù.
Allenatore a Cantù
Che per lei fu, per certi versi, un colpo di fortuna. La squadra di Cantù, fondata nel 1936, solo nel 1952 si era affacciata al grande basket approdando in serie B. Nel 1953-54 c’è pure una stagione di serie A con una retrocessione l’anno dopo. Dunque, al momento del suo arrivo, la squadra non era fortissima. Fu lei a trascinarla definitivamente in serie A.
Io sono arrivato l’anno della retrocessione, quando l’allenatore era l’americano Strong. Dopo il suo esonero mi venne affidato l’incarico di allenatore. Tornammo subito in serie A e nel 1957/58 siamo arrivati addirittura quarti. In avevo il pregio di saper impostare la gara sulle debolezze degli altri. All’epoca non si poteva fare di più, le varie Virtus Bologna, Borletti (poi Simmenthal) Milano e Ignis Varese erano ancora troppo forti.
Lo sponsor era la Milenka
Ma lei ha seminato bene. Sulle sue fondamenta sono arrivati i successi della mitica Forst Cantù (poi anche Gabetti, Squibb, Arexons e altri nomi di sponsor noti agli amanti del basket). La squadra è stata tre volte campione d’Italia, ha vinto due coppe intercontinentali, due coppe di campioni, quattro coppe delle coppe e quattro coppe Korač. Ha avuto in squadra campioni come Pierluigi Marzorati e Antonello Riva. Ma tutto iniziò dalla sua “Oransoda” Cantù. Chi erano i giocatori?
Rocchi, Cappelletti, Bernardis, Sala, Zia, Rogato, Perego, Pozzi (di Lugano), Morani, l’americano di origine croata Tony Vlastelica noto come “Mister Uncino”, Masocco. Ma era tutta la società che funzionava bene dopo l’ingresso della famiglia Casella e del nuovo sponsor Oransoda. È curioso ricordare che lo sponsor di prima era la Milenka, una distilleria che poi perse una causa proprio con la Luxardo zaratina.
Se ne va dopo quattro anni.
Sì. Non andavo più d’accordo con il presidente. I tifosi mi scrissero lettere di supporto ma non volli fare alcuna polemica perché, anche se con me c’era stata qualche incomprensione, quel presidente aveva fatto tanto per quella squadra e non meritava critiche pubbliche.
La fattoria in Australia
Non lascia solo la pallacanestro. Lascia anche l’Italia e se ne va in Australia.
Dovevo regolare definitivamente la mia vita. Avevo letto un libro di Arnaldo Cipolla sull’Australia e mi era piaciuto molto. Così decisi che sarei andato almeno a vedere e avrei deciso di conseguenza. Il viaggio era pagato dall’IRO (Internationale Refugees Organization). Così, dopo essere salpato da Trieste con la nave “Flaminia”, arrivai di nuovo in un campo profughi, stavolta a Melbourne. Mi sono inserito subito, ho giocato un po’ di pallacanestro, anche con Vladovich che veniva da Zara, stando sempre in compagnia di fiumani, istriani e triestini. Per quel che riguarda il lavoro, sono stati i fratelli Edo ed Enzo Mansutti ad assumersi come imbianchino. Poi mi sono messo in proprio. Mi occupavo di manutenzione generale nel settore immobiliare, avevo quattro operai tutti dalmati. Poi, piano piano, ho acquistato una fattoria alle spalle di Melbourne: dieci mucche, un cavallo, tantissime bellezze naturali e nessuna donna. Ora, però, voglio tornare a casa, a Zara.
Tornare dunque nella sua Borgo Erizzo “…ove il tempo mio primo / e di me si spendea la miglior parte…”.