di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Solo una donna può farsi beffe del Potere senza gonfiare le vene del collo. Senza gridare, senza insultare. Costruendo storie all’apparenza delicate, fragili, sussurrate con un filo di voce. Che, in realtà, nascondono dentro di loro tanto esplosivo da mandare in polvere tutti gli assurdi diktat, i folli veti, i roboanti proclami di chi, dall’alto, si illude di determinare il destino dei popoli.
Nelida Milani, le follie del Potere le ha conosciute da vicino. Italiana di Pola, classe 1939, per anni vicepreside e responsabile della sezione italiana della facoltà di Lettere e Filosofia all’Università della sua città, si è trovata a guardare negli occhi alcune delle tragedie del ’900.
Le prepotenze del fascismo, le violenze dei partigiani di Tito che uccidevano inneggiando alla libertà, l’esodo degli italiani dall’Istria, la difficile convivenza di chi era rimasto con i nuovi padroni. E poi, ancora, la follia del disgregarsi della Jugoslavia, la guerra etnica, i massacri di gente inerme. Ma, soprattutto, il folle progetto di sradicare dai popoli dei Balcani l’abitudine alla convivenza. La consuetudine alla mescolanza, al meticciato culturale, ideologico. Umano.
Proprio per questo i suoi racconti potrebbero essere un concentrato di veleno e umore nerissimo. Di pessimismo e diffidenza. E invece no. Perchè Nelida Milani, quando scrive, riesce a scardinare la rigidissima intelaiatura del Potere con un’ironia sottile, con una narrazione coinvolgente e raffinata, con un frullato linguistico che ricrea perfettamente l’ambiente, il momento storico, il contesto sociale che vuole fotografare. Per rendersene conto basta prendere due storie, due brevi prose tratte dal suo nuovo libro «Racconti di guerra» (pagg. 218, euro 12), pubblicato nella collana Passaggi dal Ramo d’Oro di Trieste e dall’Edit-Ente giornalistico editoriale di Fiume, con la prefazione di Gabriella Musetti.
«Capre», la prima di queste storie, è un racconto drammatico. Parte dalla costruzione di un confine, dalla trasformazione di un lembo di terra fino ad allora utilizzato come punto di passaggio «dai nostri morti quando partono per sempre e dai nostri esuli quando tornano a casa», in un punto invalicabile. In una barriera messa lì a separare genti che erano abituate a convivere. Ma il problema non sono gli esuli, e neanche i morti. A scatenare una guerra apparentemente assurda, imprevedibile, sono le capre, che proprio da quel sentiero erano abituate a passare da sempre. Se ne fa viva prima una, lascia i suoi escrementi proprio nella guardiola degli addetti al confine, gironzola un po’ e se ne va. Risolvere il problema sembra facile: basta farla fuori, spararle un colpo ben assestato e ritornerà la calma.
Ma dopo la prima capra se ne presenta un’altra, e serve a poco fare fuori anche lei, perchè si farà viva la terza, poi la quarta. E così avanti. Fino a quando quei timidi animali, che non si fanno mai avvicinare troppo dagli umani, assumono le fattezze di una minaccia inarrestabile. Mandano in tilt le certezze di chi è abituato a imporre le proprie idee con la forza. Chi amministra il terrore si trova a sentire il cuore che martella nel petto dalla paura ogni volta che all’orizzonte, verso il bosco, si profila una piccola figura bianca. E allora la tragedia si trasforma in beffa. Diventa grottesca.
«La pensione italiana» è l’altra storia in cui Nelida Milani prende a sberle i riti del Potere con il sorriso sulle labbra. Al centro del racconto c’è la classica suocera delle barzellette: dispotica, invadente, comandina. Insopportabile. Il problema è che da un po’ di tempo ha iniziato a riscuotere la pensione concessale dall’Italia, e tutta la famiglia è terrorizzata di perdere quell’inaspettata, favolosa occasione per godere un po’ di benessere. Quando la donna si ammala e muore, in casa decidono di fare finta che lei sia ancora viva. La cacciano in un gigantesco congelatore e ogni volta che arriva l’addetto da Udine per verificare il suo stato di salute, fingono che stia dormendo Al punto che lui, il funzionario, si spinge a lasciarle un tenero bacio tra i capelli, a sfiorarla con una carezza. Cullandosi nel ricordo della nonna: «Lasciamola dormire. Mai più compagna razza! Se ga roto el stampo! Lassè, lassè che la dormi, povera vecia».
Le guerre di cui parla Nelida Milani sono quelle che scoppiano ogni giorno. Tra popoli aizzati uno contro l’altro, tra Stati in cerca di affermazione, tra persone che finiscono per azzuffarsi quando non riescono più a dialogare, a provare a conoscersi. Così nel racconto d’apertura, «Pignatte inossidabili», un gruppo di donne cacciate dalla propria terra, la Bosnia, finiscono per alleggerire un’italiana di Croazia, una «talianka», delle sue preziosissime pentole. E nella «Prova del sangue» un bambino viene trascinato verso il baratro della morte solo perchè il Potere ha deciso che il suo sangue non è puro al cento per cento. Che rimangono nelle sue vene alcune gocce di liquido rosso non propriamente uguali a quelle della razza dominante. Per questo va ripulito, rieducato, rimodellato con una serie di trasfusioni. Anche a costo di togliergli la vita.
Sono storie che non nascono nel solco di una verità rivelata, indiscutibile, quelle che Nelida Milani va costruendo da anni. E non stupisce che dopo i suoi primi, bellissimi libri come «La valigia di cartone», Premio Mondello, o «L’ovo slosso», la scrittrice riesca ancora a racchiudere in poche pagine tutta l’ambiguità dell’essere uomini. Tutta la difficoltà di non rifugiarsi nella menzogna, nel tradimento, nell’ambiguità. Come capita al protagonista del racconto «Di passaggio»: provando a completare le ricerche fatte da suo padre, ormai morto, su un compagno di lotta perseguitato prima dai nazifascisti, e poi infoibato dai comunisti, si trova faccia a faccia con una rivelazione scomoda, pesantissima, inaspettata. A denunciare Bruno è stata la moglie stessa. Si illudeva, così, di riuscire a tenerlo più a casa, più vicino al figlio. Mai si sarebbe immaginata un finale drammatico.
Libera di ridicolizzare i nazionalismi, di puntare il dito contro chi scatena guerre e faide etniche, in rotta di collisione con chi si ostina a inventare sempre nuovi credo, Nelida Milani è oggi una delle voci più appartate, genuine e forti della letteratura europea. Pagine come quelle di «Racconti di guerra» fanno tremare, ridere, pensare. Potrebbero servire da vaccino contro altre tentazioni totalitarie. Contro chi si ostina ad ascoltare falsi messia, profeti fasulli. Venditori di radiosi futuri costruiti sulla menzogna, sull’odio. Sulla diffidenza verso l’«altro».