di MARINA ROSSI
Nell’estate del 1918, di fronte agli insuccessi delle armate austroungariche sui fronti di guerra e sotto la spinta del crescente nazionalismo dei popoli, i governanti viennesi si dimostrarono favorevoli a un riassetto politico e amministrativo della monarchia danubiana che andasse verso la formazione di un organismo composto da cinque Stati nazionali – tedesco, ceco, polacco, jugoslavo e ungherese – uniti da vincoli di natura federale. Proposte tardive e superate dal corso degli eventi.
Nella Conferenza socialista jugoslava, che si svolse a Zagabria il 6 ottobre 1918, i delegati sloveni e croati decisero di aderire ai Consigli Nazionali sorti per iniziativa dei partiti borghesi dell’area liberale e cattolica e si pronunciarono apertamente per la nascita di uno Stato jugoslavo indipendente e staccato dalla monarchia austroungarica. Il documento conclusivo, votato a maggioranza, portava le seguenti risoluzioni: «La Conferenza socialista jugoslava, inamovibile sulla completa autodeterminazione dei popoli, chiede l’unificazione di sloveni, croati e serbi in uno Stato indipendente, democratico jugoslavo . Lo Stato nazionale è da considerarsi la condizione preliminare per un’efficace lotta di classe».
Un progetto separatista venne avanzato anche dai socialisti delle province adriatiche, i quali erano fortemente preoccupati dall’eventualità di un inserimento del Litorale nel nuovo Stato jugoslavo. Il 17 ottobre, infatti, il deputato socialdemocratico Valentino Pittoni, in un intervento alla Commissione degli Esteri, si rendeva interprete di tale istanza, sostenendo la tesi dell’assoluta indipendenza di Trieste, unita ai territori dell’Istria e del Friuli, sotto la tutela della Lega delle Nazioni e con una costituzione democratica approvata da libere elezioni.
«Se gli intendimenti del governo – scriveva Pittoni sul quotidiano socialista «Il Lavoratore» – si fossero manifestati anche all’ultima ora, quando sarebbe stato ancora possibile stroncare l’orribile macello, essi avrebbero trovato il nostro consentimento. Ma ora è troppo tardi . Noi come Partito socialista e come Organizzazioni operaie riteniamo che Trieste debba rimanere indipendente sotto la protezione della Lega delle Nazioni, con una costituzione veramente democratica. In nessun caso intendiamo che si decida senza di noi. Questo è l’essenziale».
Tale programma doveva però essere realisticamente abbandonato al momento del crollo asburgico, venendo a scontrarsi con gli interessi strategici ed economici di una grande potenza come l’Italia, uscita vittoriosa dal conflitto, e con le aspirazioni di quella parte della popolazione triestina che nutriva sentimenti irredentisti e quindi era decisamente favorevole a un’immediata annessione della città di san Giusto al regno sabaudo. Il 29 e il 30 ottobre, infatti, si svolsero per le vie cittadine imponenti manifestazioni studentesche filo-italiane, cui si contrapposero cortei operai inneggianti alla fine della guerra e alla possibilità di una repubblica adriatica.
Il pericolo di uno scontro civile spinse gli esponenti dei due maggiori schieramenti politici triestini a rimuovere gli antichi antagonismi e ad approvare la costituzione di un comitato interpartitico detto di «salute pubblica», come del resto avveniva in tutti i centri dell’agonizzante impero, il quale risultò composto da 12 rappresentanti liberali e da 12 socialisti, e da cui venne esclusa la rappresentanza slovena.
Come primo atto politico, il Comitato di salute pubblica decise d’inviare una delegazione presso il luogotenente imperiale per dichiarargli l’avvenuto distacco di Trieste dalla compagine statale austroungarica e per chiedergli la consegna dei poteri civili e militari.
Nel contempo si erano verificati alcuni gravi incidenti, provocati dalle frange estremiste del movimento liberal-nazionale allo scopo di compromettere l’accordo stabilito con le forze socialiste: qualche centinaio di studenti, fatta incetta di un ingente quantitativo di armi e aggrediti diversi cittadini di nazionalità slovena, tentò di dar l’assalto al più importante centro culturale e politico del mondo sloveno, il Narodni Dom («Casa del Popolo»), uccidendo un ferroviere.
Le violenze di piazza portarono a un solo risultato: quello di eliminare gli ultimi ostacoli che si opponevano all’inserimento di una rappresentanza slovena nel Comitato di salute pubblica. Tale decisione fu accettata allo scopo di stornare la minaccia (fondata, come avvertivano i fogli della borghesia slovena) di una «calata» nel centro della città di alcuni contingenti militari jugoslavi stazionanti nelle caserme dell’altipiano carsico.
Di altri episodi d’estremismo si resero responsabili invece i giovani socialisti che s’installarono nel palazzo della Luogotenenza per togliervi la bandiera italiana e sostituirla con quella rossa della rivoluzione.
La risposta del Comitato non si fece attendere: furono emanate delle disposizioni che ponevano il veto a ogni assembramento, e in cui si annunciava l’istituzione di una guardia civica a garanzia dell’ordine pubblico, che però incontrò non poche difficoltà, anche perché la città e i sobborghi erano infestati da disertori e da ex prigionieri di guerra russi e serbi che, organizzatisi in bande, si abbandonavano a grassazioni e saccheggi d’ogni genere.
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A sbloccare una situazione di ora in ora sempre più drammatica fu la singolare proposta espressa da un socialista sloveno. Il nazionalista triestino Marco Samaja ricorda, infatti, che in una riunione indetta dal Comitato di salute pubblica nel pomeriggio del 31 ottobre «un giovane avvocato slavo socialista, certo Gelouh, prospettò la necessità di informare lo Stato Maggiore italiano della situazione della città e in chiusa del suo discorso offerse una torpediniera austriaca che diceva di proprietà dell’avvocato Tomasich, uno slavo di Trieste, per raggiungere Venezia. Gli slavi si assumevano il compito di procurarci la torpediniera, l’equipaggio e il capitano. Non saprei descrivere la nostra sorpresa. Afferrai tosto l’idea con entusiasmo». (Al momento dell’abdicazione, l’imperatore Carlo aveva ceduto le unità facenti parte della Marina da guerra austroungarica al Comitato Rivoluzionario degli jugoslavi di Zagabria. Le poche forze di stanza a Trieste erano state prese in consegna dal comitato sloveno con sede al Narodni Dom e affidate al comando dell'avvocato Tomasich).
Alle prime luci dell’alba del giorno successivo la «N° 3», una torpediniera disarmata già appartenente alla vecchia flotta imperiale, si dirigeva alla volta di Venezia con a bordo tre delegati del Comitato di salute pubblica – Marco Samaja per gli irredentisti italiani, Giuseppe Ferfolja per gli sloveni e il giornalista Alfredo Callini per i socialisti – e guidata da un equipaggio in prevalenza slavo, al comando del capitano Vucetich, per condurre a termine il suo storico mandato.
Poco prima della partenza erano state issate sulla prua e sulla poppa dell’unità due bandiere tricolori: quella italiana e quella serba. La navigazione, però, era densa di rischi e di imprevedibili pericoli: se le mine furono evitate con una certa facilità da Gebauer, l’ufficiale in seconda, cui era stata affidata la rotta per la sua dimestichezza con le acque del golfo, rimaneva pur sempre la possibilità di essere colpiti da aereo dell’esercito austriaco in fuga o di quello italiano in rapida avanzata.
Finalmente Venezia fu raggiunta. Ma l’accoglienza non fu tra le più calorose. Appena scesi dalla nave i delegati vennero bendati e condotti al cospetto, degli alti comandi della Marina da guerra, con i quali ebbero dei colloqui d’inaspettata ed esasperante freddezza. Sulle modalità dell’invio di una o più navi da guerra a Trieste si tornò a discutere il 2 novembre sempre in un clima di sospetto e diffidenza. E a distanza di anni sarebbe rimasta viva nell’animo del Samaja l’amarezza e l’umiliazione per il trattamento subìto: «L’ammiraglio – scrive – pretendeva noi partissimo ancora nella serata, perché secondo le leggi internazionali non era possibile di tenere dei parlamentari oltre le 48 ore; scoccate queste, bisogna che essi sieno rimessi di nuovo al confine. Approfittai di questa occasione per pregarlo ancora una volta di permettermi di non ritornare a Trieste altro che a bordo della flotta. Ma egli fu irremovibile ; era necessario ritornassi collo stesso mezzo col quale ero arrivato».
Alla fine si decise che la torpediniera si sarebbe mossa alle 7 del 3 novembre, con qualche ora d’anticipo rispetto alla partenza della flotta italiana, cui avrebbe fatto da battistrada nei tratti minati. Nel viaggio di ritorno verso Trieste la perizia di Gebauer ebbe la meglio sugli insidiosi e fitti banchi di nebbia. Alle 14 la torpediniera toccò il molo San Carlo e i delegati annunciarono alla folla assiepata lungo le rive l’imminente arrivo della flotta italiana. Due ore dopo attraccò nello stesso punto il caccia italiano «Audace», da cui scese il generale Petitti di Roreto che prese possesso, a nome del Regno d’Italia, della città, ponendo fine a 500 anni di dominio degli Absburgo.