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Osimo, il Trattato surreale (paginedidifesa.it 11 nov)

di Carlo Montani 

Nella storia dei popoli e degli Stati esistono eventi che non è possibile rimuovere dalla memoria: da un lato, per gli effetti immediati di natura politica ed economica, e dall’altro, per le conseguenze che, unitamente alle loro matrici, vanno a determinare sugli orientamenti decisionali, e sullo stesso inconscio collettivo. Il trattato di Osimo non fa eccezione, né potrebbe essere diversamente, perché ha costituito una novità davvero surreale nella storia delle relazioni diplomatiche: non era mai accaduto che uno Stato sovrano rinunciasse alla sovranità su una quota significativa del proprio territorio, senza alcuna contropartita, come accadde nella fattispecie.
La firma ebbe luogo 33 anni or sono, e precisamente il 10 novembre 1975, da parte del Ministro degli Affari Esteri Mariano Rumor e del suo omologo jugoslavo Milos Minic, in un clima di frettolosa segretezza, motivata da ragioni di opportunità politica che intendevano nascondere alla pubblica opinione un evento non certo accettabile sul piano giuridico, e meno che mai su quello etico. Del resto, anche le trattative erano state condotte in analoghe condizioni di riservatezza, quasi da consorteria, ed il Governo italiano le aveva affidate, anche nella fase conclusiva, a soggetti sostanzialmente inidonei, perchè estranei al mondo diplomatico. Non era mai accaduto!

Con Osimo, l’Italia volle trasferire alla Jugoslavia la sovranità statuale sulla cosiddetta Zona “B” del Territorio Libero di Trieste, che non era mai stato costituito con atto formale, sacrificando altre migliaia di cittadini, costringendoli a prendere le vie dell’esilio in aggiunta ai 300 mila che li avevano preceduti al termine delle vicende belliche, e sottoscrivendo il trasferimento alla Repubblica federativa di un’area pari al tre per mille del territorio italiano, su cui insistono aggregati urbani importanti come quelli di Buie, Capodistria, Pirano, Portorose, Umago. Naturalmente, la responsabilità politica, al di là di pur giustificati dubbi sulle reali competenze dei plenipotenziari italiani, guidati da un dirigente del Minindustria, fu soprattutto del Governo, e con esso, del Parlamento che ebbe a ratificarne l’operato, sia pure con diffuse sofferenze.

Oggi, ad un terzo di secolo da Osimo, è congruo fare il punto sulle ragioni che indussero determinazioni tanto opinabili, in una prospettiva storica per quanto possibile oggettiva, ma nello stesso tempo, in un’ottica di inevitabile “contemporaneità”, tanto più che la prassi “osimante” fece scuola, si tradusse in ulteriori cedimenti di carattere politico ed economico, e pervenne, quale effetto di rilievo maggiormente visibile, al riconoscimento delle nuove Repubbliche indipendenti di Croazia e Slovenia, sorte all’inizio degli anni novanta dalla dissoluzione jugoslava: anch’esso, come il trattato del 10 novembre 1975, senza alcuna contropartita. Eppure, i problemi sul tappeto, molti dei quali lo sono tuttora, non erano di scarsa consistenza: anzi tutto, il riconoscimento della verità storica, e poi, la tutela dei monumenti e delle tombe italiane oltre confine, la sorte dei beni immobili già appartenenti agli esuli, il regime delle acque territoriali, gli accordi per la pesca in Adriatico, e così via.

Evidentemente, la storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si commetterebbero gli stessi errori del passato. Nondimeno, l’analisi delle motivazioni che indussero Osimo, e delle conseguenze che ne derivarono a breve e lungo termine, è ugualmente importante: se non altro, perché risulta utile a collocare i problemi di oggi in una dimensione storica esauriente, ed a riconoscere nella politica estera italiana verso la Jugoslavia ed i suoi eredi la continuità di una posizione di “debolezza e di scarsa coscienza nazionale” (1).

1.- Il quadro di riferimento

Alla metà degli settanta, quando il trattato di Osimo divenne realtà dopo un lungo periodo di incubazione, le condizioni politiche internazionali, ed a più forte ragione quelle interne, erano mature per l’evento. Nel quadro mondiale, il primo maggio 1975 si era conclusa la guerra vietnamita con l’abbandono di Saigon da parte delle forze statunitensi, ma già da diversi anni la politica di “non allineamento” del Maresciallo Tito, Presidente a vita della Jugoslavia, era stata premiata dalle attenzioni dell’Occidente, culminate nella visita di Stato che il Presidente americano Nixon gli aveva reso a Belgrado sin dal 1971, nonostante la negazione dei diritti umani da parte del regime, che nello stesso periodo aveva condannato a sette anni di carcere duro un intellettuale dissidente, Mirko Vidovich, responsabile di avere scritto alcune poesie critiche nei confronti del dittatore, e nulla più.

Sempre nel 1971, Tito era stato ricevuto in Vaticano da Papa Paolo VI assieme all’ultima moglie Jovanka, completando il processo di riavvicinamento alla Santa Sede che era iniziato un quinquennio prima, con la ripresa delle relazioni diplomatiche. La posizione jugoslava, collocandosi in un ruolo apparentemente equidistante da Mosca e da Washington, acquisiva crescente credibilità, resa più accentuata dalla tensione col regime dei colonnelli greci che sarebbe crollato nel 1974, e dall’eliminazione in pari data di un gruppo sovversivo di ispirazione nazionalista. Tito valorizzava al massimo la sua “leadership” nel movimento dei Paesi non allineati, che giunsero ad un massimo di 44, ma con la sola Jugoslavia a rappresentarvi il continente europeo, e non trascurava di polemizzare con presunte “organizzazioni irredentiste e revansciste” italiane, sollecitando nei loro confronti un impegno a tutto campo e trovando fertile ascolto anche a Roma.

In Italia si vivevano momenti difficili. Nel 1975 persero la vita non meno di dodici vittime degli “opposti estremismi”, tra cui gli studenti di destra Mikis Mantakas e Sergio Ramelli, e la brigatista Mara Cagol, compagna di Renato Curcio. Il Presidente Leone, poche settimane prima di Osimo, indirizzò un messaggio al Paese per invitarlo a fare quadrato contro le difficoltà dell’ora, in un clima di forte disagio che aveva già visto il notevole successo del Partito comunista nelle elezioni amministrative di giugno, tradottosi in un avanzamento di oltre cinque punti, e non era stato estraneo all’abbassamento della maggiore età a 18 anni votato in marzo, ed al nuovo diritto di famiglia diventato legge in aprile con la sola opposizione di liberali e missini. Intanto, Pacciardi e Sogno proponevano l’avvento di una Repubblica presidenziale come possibile rimedio al male oscuro dell’Italia, tristemente simboleggiato, in autunno, dal delitto del Circeo e dall’uccisione di Pier Paolo Pasolini.

In queste condizioni, la politica di solidarietà nazionale che aveva coinvolto il Partito comunista nell’area di governo ebbe buon giuoco nell’incentivare, e poi nell’accelerare le trattative che condussero ad Osimo: il 20 giugno, Tito avrebbe incontrato a Brioni il Segretario del PCI, Enrico Berlinguer, tanto che più tardi fu possibile affermare, al di là della riservatezza a cui fu improntata la visita, come fossero stati costoro i firmatari sostanziali del trattato. L’eco si spense presto, nonostante il diluvio di retorica che fu carattere ricorrente nel dibattito parlamentare di ratifica ma che non avrebbe impedito alla maggioranza, irrobustita da una sinistra oltremodo compatta, di giungere ad una rapida approvazione, contrari i soli missini ed alcuni dissidenti, tra cui i democristiani Barbi, Bologna, Costamagna e Tombesi, il liberale Durand de la Penne ed il socialdemocratico Sullo (2), e soprattutto, con l’assenza tattica di parecchi senatori e deputati che non avevano avuto il coraggio di uscire allo scoperto, mentre la DC ebbe quello di deferire ai probiviri coloro che si erano dissociati dalla disciplina di partito.

2.- Effetti e prospettive

Gli accordi di Osimo, che assieme al trattato vero e proprio comprendevano intese sulla cooperazione economica, la cittadinanza, i beni culturali ed il traffico di frontiera (3), rimaste in buona parte sulla carta, produssero vibranti e documentate proteste nell’ambito giuliano, e più specificamente in quello triestino, con motivazioni di forte spessore non solo sul piano etico-politico, ma prima ancora su quello giuridico, che sottolinearono una lunga serie di inadempienze, se non anche di illegalità, donde la richiesta al Presidente della Repubblica di non controfirmare la legge di ratifica; istanza che venne respinta. Il trattato avrebbe potuto essere impugnato per ragioni di diritto internazionale, ma anche costituzionale ed amministrativo, puntualmente evidenziate (4), ma non fu privo di correlazioni penali, potendosi ravvisare nell’approvazione dei suoi disposti il reato previsto dall’art. 241 c.p., laddove si puniva con l’ergastolo “chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio od una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero”.

Le condizioni politiche dell’epoca non erano tali da ipotizzare l’apertura di un procedimento in tal senso, ma la violazione della legge rimane un fatto oggettivo, senza dire che nella fattispecie si tratta di un reato imprescrittibile, a prescindere dalla depenalizzazione dell’alto tradimento che sarebbe sopraggiunta in tempi più recenti (5).

Nel 1975 la congiuntura italiana era ben diversa da quella del 1947, quando aveva dovuto subire il “diktat” ed i limiti della propria delegazione alla Conferenza della pace, non meno significativi dell’intransigenza alleata. Ora, l’Italia era nuovamente un’importante potenza industriale, con fondamentali di gran lunga superiori a quelli jugoslavi, ma ciò non fu sufficiente, e Tito riuscì a realizzare il suo ultimo capolavoro, cui non fu estranea la “cupidigia di servilismo” che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano bollato con nobili parole durante la discussione per la ratifica del trattato di pace. Gli effetti non tardarono a manifestarsi: la fuga a Belgrado del terrorista Abu Abbas promossa da Craxi, l’omaggio di Pertini alla bandiera con la stella rossa, e l’uccisione del pescatore Bruno Zerbin nel golfo di Trieste ad opera di una motovedetta jugoslava, furono episodi tristi, a cui avrebbe fatto seguito, come si diceva, il riconoscimento senza contropartite di Croazia e Slovenia.

Il trattato di Osimo è rimasto inattuato in diverse statuizioni, talvolta grottesche se non anche inconcepibili sul piano economico, come la realizzazione della Zona industriale mista sul Carso, o la costruzione di una gigantesca idrovia dall’Adriatico al Danubio, basata su un sistema di chiuse faraoniche per il superamento di enormi dislivelli. Il rigetto fu dovuto soprattutto a due ragioni: in primo luogo, la forza delle contestazioni locali, ed in particolare della “Lista per Trieste” (che conseguì la maggioranza dei voti alle prime elezioni nella città di San Giusto), vessillifera di una nuova autonomia in chiave nazionale; e poi, perché la crisi jugoslava, deflagrata rapidamente dopo la morte di Tito, avrebbe impedito il perseguimento degli obiettivi di Osimo, limitandone l’effetto principale, e comunque determinante, al trasferimento della sovranità sul territorio della Zona “B”.

Le conseguenze sono state evidenti, come detto, sul piano socio-politico, e poi anche su quello economico, attraverso una serie di protocolli che raggiunse un livello emblematico nel forte supporto finanziario offerto dal Governo Goria a quello di Branko Mikulic all’inizio del 1988, e nell’accantonamento di motivate attese degli esuli giuliani e dalmati circa la questione dei beni “abbandonati”, ma ad un tempo, in materia di difesa dei valori culturali e spirituali sacrificati alla logica dell’interscambio, con cui, al contrario, potrebbero utilmente convivere, in base ai principi fondamentali di una vera ed effettiva cooperazione internazionale.

3.- Conclusioni

Ad oltre un trentennio di distanza, si può e si deve affermare che “il trattato di Osimo fu un errore” (6), se non anche un reato perseguibile a termini di legge, basato sulla fallace presunzione che la Jugoslavia rimanesse protagonista sul proscenio internazionale, come leader dei Paesi non allineati, e sulla difficoltà di prevedere che si sarebbe dissolta in una giustapposizione di Stati minori; ma prima ancora, sulla cronica carenza di una politica estera di ampio respiro, e di un ruolo realmente propositivo nello scacchiere balcanico.

Il trattato aveva nella sua stessa genesi le matrici di una condanna formale e sostanziale, e si illudeva di trovare nella Repubblica jugoslava un interlocutore privilegiato per il solo fatto di avere pianificato la cosiddetta via nazionale al socialismo, fondata sui fasti dell’autogestione, che avrebbero condotto al disastro. Ciò, al pari di un’ipotetica collaborazione interclassista che non poteva basarsi sull’annullamento talvolta fisico delle opposizioni in campi di prigionia tristemente famosi, o sulle surreali condanne di sacerdoti che avevano dato alle stampe una piccola immagine sacra, evidentemente difforme dal verbo ancora dominante nello scorcio finale degli anni Ottanta.

Ad Osimo sarebbe stato molto difficile modificare i confini che erano scaturiti dal trattato di pace e dalle rettifiche del 1954, alla luce delle condizioni politiche di cui si è detto, e del potenziale coinvolgimento degli altri Stati che avevano firmato il “diktat” del 1947, ma dopo la dissoluzione della Jugoslavia le prospettive avrebbero potuto essere diverse, se non altro per alcune importanti questioni d’interesse plurimo, come quella delle acque territoriali. L’occasione fu perduta, ed oggi rimane, al massimo, una generica speranza nell’effetto Europa.

Osimo è un “collo di bottiglia” ormai irreversibile, non meno di quanto si possa dire per il trattato di pace. Tuttavia, prescindendo dalla valutazione delle responsabilità, ed inquadrando lo stato delle cose in una prospettiva che vede la cristallizzazione degli accordi stipulati nel 1975, quando avrebbero potuto tradursi da istituti di diritto internazionale venuti meno per la scomparsa di uno dei contraenti, in semplici riferimenti per nuove ipotesi d’intesa, si può concludere con l’antico saggio: al di là delle apparenze, il fiume della storia continua a scorrere.

Ciò significa che Osimo, ampiamente ridimensionato dalle vicende storiche, ed in primo luogo dall’implosione jugoslava, potrà essere oggetto di riconsiderazione, nella misura in cui le sue permanenti lacune di legittimità e di equità inducano valutazioni costruttivamente consapevoli nella Casa comune europea, ma prima ancora negli ambienti giuliani ed istriani, e nelle forze politiche da cui hanno mutuato nuove attenzioni con l’approvazione pressoché unanime della legge che istituisce il “Giorno del Ricordo” (fissandolo nel 10 febbraio, quale anniversario del trattato di pace).

E’ sempre valido, anche nella fattispecie, il pensiero di Benedetto Croce, secondo cui la linea del possibile si sposta grandemente grazie “all’audacia ed alla forza inventrice della volontà che veramente vuole”.

Annotazioni

1.- Lucio Caputo, Trattato di Osimo: l’unica speranza è nell’effetto Europa, in “Il Giornale”, Milano, 27 settembre 2005. Le carenze della politica estera italiana nei rapporti col mondo balcanico hanno matrici storiche più lontane: basti pensare alle disavventure diplomatiche in occasione delle trattative di pace del 1919, nonostante le condizioni di favore indotte dalla Vittoria, ed a quelle del 1947, quando l’Italia dovette subire il “diktat” sebbene le divisioni tra gli Alleati le avessero lasciato qualche margine di manovra, sia pure circoscritto.

2.- Il discorso del Senatore Barbi pronunciato il 23 febbraio 1977, ed improntato a ragioni morali ancor prima che a pregiudiziali politiche o giuridiche, ebbe particolare rilevanza perché il parlamentare era Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (cfr. Paolo Barbi, La rinuncia di Osimo, Edizioni AGI, Roma 1977); Barbi, peraltro, non sarebbe stato presente al momento del voto. Non meno significativa fu l’opposizione di Fiorentino Sullo, uomo di sinistra, che volle protestare per l’affrettata segretezza e per il mancato coinvolgimento delle Commissioni Affari Esteri di Camera e Senato, senza dire che suo padre “aveva combattuto sul Carso e sul Pasubio” e che gli sarebbe parso di “tradirne la memoria se avesse votato per il Governo”.

3.- Per un esame sistematico dei testi, corredato da una lunga introduzione (orientata a favore della tesi minoritaria secondo cui la soluzione del problema confinario sarebbe stata predeterminata), cfr. Manlio Udina, Gli accordi di Osimo: lineamenti introduttivi e testi annotati, Edizioni Lint, Trieste 1979. Per un’analisi critica delle cause di lungo periodo che condussero ad Osimo, e delle sue conseguenze, cfr. Carlo Montani, Il trattato di Osimo, Edizione Risma, Firenze 1992.

4.- Lino Sardos Albertini, Il trattato di Osimo: richiesta al Capo dello Stato di negare la ratifica, Trieste 1977. Il rifiuto non venne motivato, ma traeva evidenti origini dalla “politica di debolezza e di scarsa coscienza nazionale” perseguita da anni, e ben dimostrata, alla fine, dal dibattito parlamentare di ratifica. E’ il caso di aggiungere che il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, garantì alla delegazione triestina il rinvio della legge di ratifica, mentre la firma era già stata apposta poche ore prima!

5.- La depenalizzazione dell’alto tradimento è stata approvata nel febbraio 2005 con una larga maggioranza trasversale, assieme a quella di altri reati, tra cui l’oltraggio alla bandiera, declassato a semplice illecito sanabile in via amministrativa. L’alto tradimento, reato per cui la legislazione precedente, in vigore all’epoca di Osimo, prevedeva la pena dell’ergastolo, è diventato punibile, salvo eccezioni, con dieci anni di reclusione.

6.- Lucio Caputo, Trattato di Osimo: l’unica speranza è nell’effetto Europa, op. cit., Milano, 27 settembre 2005. In effetti, la tesi dell’errore, pur suffragata dal carattere approssimativo delle trattative, è alquanto riduttiva: a livello politico, la preparazione del trattato dimostra la volontà dell’Italia di chiudere comunque la partita con la Jugoslavia, sia pure a condizioni lesive del suo buon diritto e della sua stessa sovranità.

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