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19 nov – Giornalismo: addio a Carlo Marincovich

Era uno dei "padri" dello sport di Repubblica, ha raccontato le imprese di Azzurra e i mondiali della Ferrari. E ieri notte se n'è andato, nel sonno, a Roma, all'età di 73 anni. Lo sport italiano piange oggi la scomparsa di Carlo Marincovich, una firma da prima pagina.

Figlio di profughi istriani, Marincovich era nato a Pescara, e all'Istria e all'Abruzzo è rimasto sempre legato. Ma aveva parenti in tutto il mondo, scappati dopo la guerra, e uno lo scoprì all'estremo sud dell'Argentina. Prime esperienze nelle agenzie di stampa, al Tempo e storiche testate di settore come "Nautica" e "Forza Sette", dove fu giovanissimo direttore. Il primo gennaio del '79 l'assunzione a Repubblica, un quotidiano nato senza sport, e che a poco a poco ha fatto di quel settore un punto di arrivo per grandi giornalisti.

Marincovich ha seguito per più di vent'anni la formula 1, memorabili le sue polemiche con la Ferrari negli anni della crisi: si sentiva tifoso ma anche critico. E Carlo ha vissuto ai box anche gli anni della rinascita.

Ecco cosa scriveva nel 2000, dopo la vittoria di Suzuka, 21 anni dopo l'ultimo titolo mondiale. "Da ventuno anni la Ferrari era un incubo italiano. Lo era diventata a poco a poco passando da una crisi all'altra, cambiando freneticamente macchine, motori, piloti, presidenti, direttori sportivi, ingegneri, meccanici e tifosi ma non riusciva mai a vincere questo benedetto titolo mondiale piloti che ci stava e ci sta tanto a cuore. Senza quel titolo ci sentivamo persi".

A quel mondiale seguirono gli anni dei trionfi e di Schumacher: un pilota freddo com'era freddo Marincovich nei suoi giudizi. Mai banale, allergico ai trucchi e alle combine. Temutissimo anche dai vertici delle scuderie.

L'altra sua grande passione era la vela: era un tecnico, ma soprattutto un praticante. Iniziò l'attività velica nel 1950 nella Classe Jole Olimpica, fu campione italiano nella Classe Finn. Per il Tempo, da Napoli, raccontò le regate dei Giochi del '60. E più in là a Repubblica, fra una Coppa America e una Whitbread, contribuì a fare di una disciplina poco diffusa uno sport seguitissimo, con alte audience e paginoni sui giornali. Scrisse di Fogar e di Soldini, di sconosciuti navigatori e grandi imprese. Lontano dal calcio, ricordava sempre con disincanto che alla fine si tratta solo di sport.

 

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