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Rumici: storie di deportazione (Voce del Popolo 24 dic)

Il Novecento è stato definito il “secolo dei campi di concentramento”, infatti a partire dalla guerra anglo-boera (1899-1902) nel Transwal (odierno Sudafrica), passando per la Grande guerra, il secondo conflitto mondiale – e la politica razzista di sterminio – nonché i gulag sovietici, si giunge alla tragedia che infiammò la ex Jugoslavia, anch’essa caratterizzata dalle deportazioni e dai campi di detenzione. Nel Ventesimo secolo sia nei periodi di guerra sia in quelli di pace (come avvenne in tutti i regimi totalitari) la popolazione civile divenne vieppiù protagonista della cosiddetta grande storia, complice anche la nazionalizzazione delle masse.

Al termine della seconda guerra mondiale l’Europa era costellata di campi – di raccolta, di prigionia ma anche di annientamento nel significato letterale del termine, si pensi alla realtà dell’URSS – in cui affluirono gli appartenenti alle formazioni militari del Terzo Reich e dei collaborazionisti, tra cui quelle degli stati satellite, i prigionieri, gli internati nei campi di lavoro e/o concentramento della Grande Germania in attesa di venir rimpatriati, nonché l’enorme massa di profughi, che, perduto ogni avere, necessitava di assistenza, cibo e cure. Nell’Europa liberata-occupata dall’Armata Rossa e dall’esercito popolare jugoslavo (Tito rappresentò un unicum in tutto l’Est) vennero quasi immediatamente istituiti luoghi di detenzione non solo per le unità militari ma pure per i civili i quali venivano deportati essenzialmente per motivi di natura politica e di “classe”. I malcapitati potevano essere sì dissidenti ma anche solo potenziali oppositori. In tutti i contesti passati nell’orbita comunista si era intenzionati a compiere la rivoluzione e, come avvenne in tutti i casi analoghi, quella stagione si aperse con un bagno di sangue, con l’eliminazione di quanti avrebbero potuto intralciare quel cammino, ma anche con l’internamento di uomini e donne, sia in divisa sia civili, che si protrasse per decenni.

Un vuoto storiografico

Nella Venezia Giulia, come dimostrano gli studi storici più obiettivi, in concomitanza con la presa del potere da parte degli Jugoslavi si procedette al repulisti di tutto l’apparato burocratico che rappresentava lo stato italiano nonché di tutti quegli elementi che, in quanto politicamente attivi, erano temuti per una loro seria opposizione – anche in previsione del trattato di pace – all’annessione della regione allo stato creato dal Maresciallo. Questo non fu un aspetto esclusivo della Venezia Giulia, dettato da connotazioni nazionali, perché tale fenomeno si riscontra anche nel resto della Jugoslavia. Il potere comunista colpì, a prescindere dalla nazionalità, centinaia di migliaia di persone, che in parte furono eliminate. Nelle nostre terre, va riconosciuto per onestà intellettuale, si aggiunse anche l’aspetto della lotta nazionale, che per alcuni versi era la continuazione del processo di affermazione nazionale appunto dei popoli slavi, interrotto bruscamente dal fascismo. Quindi si trattava di una forma di riscatto, ma al contempo era anche l’espressione esplicita di un nazionalismo che mal tollerava le “altre presenze etniche” su un territorio considerato di sua pertinenza. Dei problemi legati alle deportazioni la ricerca storiografia se ne sta occupando solo da due-tre lustri. L'odissea della gente comune dell’Istria finita in prigionia non è molto nota al pubblico, anche perché relativamente poche sono le pubblicazioni sull’argomento (qualche volume di ricordi o testimonianze e niente più). Sulle vicende di casa nostra vanno rammentati, in primo luogo, i lavori di Giacomo Scotti e Luciano Giuricin su Goli otok, il campo di detenzione simbolo del sistema repressivo jugoslavo.

Un contributo su tali aspetti ci viene offerto ora da Guido Rumici che recentemente ha pubblicato un volumetto su queste vicende storiche troppo poco divulgate. Si tratta di “Storie di deportazione: Pola e Dignano – maggio 1945. Testimonianze di istriani reduci dalle carceri di Tito”, edito lo scorso anno dall’ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) di Gorizia – il cui Comitato negli ultimi anni si è fatto promotore di interessanti quanto importanti iniziative editoriali concernenti l’Istria –, in cui offre uno spaccato sul problema delle deportazioni nel meridione della penisola.

Il saggio si basa altresì su una serie di interviste fatte dall’autore ai protagonisti dell’epoca. Come avverte si tratta di “Argomenti sui quali più ampio è il divario tra l’esiguità delle fonti disponibili e la necessità di comprendere i meccanismi che coinvolsero migliaia di persone” (p. 7). Mentre nei casi di Trieste e di Gorizia il problema delle deportazioni – e delle relative scomparse – venne ben presto politicizzato, mentre quello di Fiume è stato affrontato attraverso una seria ricerca storiografica, molta meno attenzione è stata riservata, invece, agli accadimenti istriani.

L’autore rammenta che nel corso del tempo sono uscite delle pubblicazioni contenenti le testimonianze raccolte dalla viva voce dei protagonisti, ma sono ancora numericamente insufficienti per poter comprendere nei dettagli i passaggi attraverso i quali avvennero i prelevamenti, i trasferimenti e sovente le soppressioni. Come sottolinea Rumici, tale lavoro non ha la pretesa di affrontare né la storia delle deportazioni nel maggio-giugno 1945 né di ricostruire il contesto storico in cui colloca tale fenomeno, ma si limita ad offrire esclusivamente alcune testimonianze concernenti due realtà della bassa Istria.

La viva voce dei sopravvissuti

Il ricercatore annota un’avvertenza sulle fonti orali in quanto “risentono delle scelte personali compiute dai singoli, che spesso non tengono conto del complessivo clima storico e della globalità degli eventi in cui si inseriscono non completamente oggettive” e poi “le testimonianze raccolte a distanza di molti anni dai fatti raccontati risentono dello scorrere del tempo e soprattutto degli inevitabili condizionamenti apportati dagli avvenimenti successivi” (p. 8). Comunque, nonostante siffatte caratteristiche, esse sono tessere indispensabili per dare vita ad un lavoro di ricerca incentrato sulle deportazioni in primo luogo per la difficoltà di accedere ad una ricca documentazione.

Il volume propone un sintetico excursus storico che aiuta a comprendere l’avanzata jugoslava nella Venezia Giulia e l’entrata militare a Pola, sulla quale, nel giro di breve tempo, “(…) come negli altri capoluoghi di provincia e più in generale in tutta la regione scese una pesantissima cappa di oppressione e di paura ad avvolgere buona parte della popolazione” (p. 16). L’autore scrive che “avvalendosi della collaborazione di alcuni delatori locali filoslavi, gli agenti dell’O.Z.N.A. prelevavano dalle loro abitazioni, quasi sempre nelle ore notturne e con la scusa di voler effettuare solo un interrogatorio, centinaia e centinaia di cittadini che furono dapprima arrestati, spesso condotti nelle carceri di Via Martiri, qui detenuti per parecchi giorni e, in molti casi, successivamente deportati verso destinazioni rimaste in molti casi ignote” (p. 16). I motivi degli arresti erano innumerevoli e potevano andare dall’accusa, più o meno vera, di collaborazione a vario titolo con i nazi-fascisti alla potenziale minaccia di opposizione alla nuova realtà che si andava costituendo, oppure era già sufficiente la delazione. Il maggior numero degli sventurati fu deportata nei campi siti nelle regioni interne della Jugoslavia ove si trovavano anche altre decine di migliaia di detenuti appartenenti alle varie nazionalità del nuovo stato comunista ma ad esso avverse.

A differenza delle altre località dell’Istria, a Pola giunsero le truppe anglo-americane (12 giugno 1945), perciò il trasferimento dei prigionieri dalle carceri della città dell’Arena verso i campi di smistamento e poi di concentramento avvenne utilizzando ogni mezzo disponibile e soprattutto con molta fretta perché l’esercito jugoslavo doveva abbandonare il centro urbano. Con particolare accanimento furono colpiti i membri dei reparti della X Mas e della Milizia Difesa Territoriale (M.D.T.) che avevano resistito all’avanzata jugoslava, arrendendosi solo il 6 maggio 1945. Si ricordano in modo particolare i quasi duecento morti del Secondo Reggimento “Istria” della M.D.T. Tra le figure più in vista di Pola deportate, e rilasciate nel 1949 attraverso il valico della Casa Rossa di Gorizia, si ricorda il questore Angelo D’Amato, il vicecommissario della questura Eugenio Protti e l’agente di pubblica sicurezza Alessandro Giadresco. Non fecero più ritorno, invece, tutti i quadri dirigenti dell’Ospedale della Marina di Pola, e tra questi il direttore, il colonnello medico Isidoro Doria, i capitani medici Tito Intrito e Vincenzo Maffei ed il sottotenente Aristide Barbieri, comandante del gruppo infermieri (p. 21). Oltre a colpire coloro che non manifestarono particolare entusiasmo per la nuova situazione, va evidenziato che gli arresti e le deportazioni concernevano in modo particolare “(…) persone che, al di là di eventuali responsabilità personali, spesso non accertate, ebbero però, agli occhi degli jugoslavi, la colpa di appartenere a categorie sociali o a corpi militari, tra cui le forze dell’ordine, che avrebbero dovuto essere eliminate in massa, in quanto possibili ostacoli ai piani del M.P.L. di Tito. L’intento delle autorità comuniste jugoslave nella Venezia Giulia era infatti quello di creare tutte le condizioni per l’annessione dell’intera regione alla nuova Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia e, in questa ottica, vennero emanati ordini ben precisi che non lasciavano spazio ad alcun dubbio” (p. 21). Ma poiché si era nel pieno di una rivoluzione era sufficiente molto poco per essere colpiti e, sovente, per sparire nel nulla: un vecchio rancore, un regolamento di conti per i più svariati motivi, l’effetto di una delazione superficiale presa alla lettera, la bramosia di vendicare un torto passato, la parentela con una persona già inquisita, ecc. Ed il numero degli arrestati fu indubbiamente alto, in base ai dati forniti all’epoca dal Ministero degli Affari Esteri nella sola Pola se ne annoverarono circa 4000 – in buona parte rilasciati –, e oltre 400 fermi furono registrati nei tre soli giorni antecedenti l’arrivo degli anglo-americani. Il numero degli scomparsi dalla città dell’Arena non ci è noto a causa dell’insufficiente documentazione ancora a nostra disposizione. L’unico dato certo è quello relativo alle denunce di scomparsa che vennero presentate alle autorità alleate: tra il 12 giugno 1945 e il 15 settembre 1947, 827 furono le persone dichiarate scomparse.

Il volume raccoglie cinque testimonianze: due sono state registrate dall’autore dalla viva voce dei sopravvissuti, un’altra è stata ricavata da un diario in cui vengono narrate le vicende personali e altre due provengono da deposizioni di cittadini conservate all’archivio del Ministero degli Affari Esteri di Roma. Si tratta di episodi contraddistinti da una particolare efferatezza, da sevizie, da condizioni di vita inumane, da ambienti in cui prevalevano il lezzo e gli insetti.

Le storie di vita attraverso i campi di detenzione offrono dei tasselli importanti poiché attraverso le stesse si comprendono, anche nei dettagli, le dinamiche che portavano agli arresti e alla tragedia che spettava ai malcapitati, che si traduceva in marce forzate, spostamenti da una località all’altra e da violenze quotidiane. Emergono anche altri aspetti, come la presenza di un elevato numero di sacerdoti nei campi di prigionia nonché di ex militari appartenenti in primo luogo all’esercito dello Stato indipendente di Croazia ma anche di civili non favorevoli al comunismo, o, semplicemente, “capitalisti” e “nemici del popolo”.

Kristjan Knez

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